L’ex presidente dell’Anm Luca Palamara è stato rimosso dall’ordine giudiziario. Così hanno sentenziato i giudici della disciplinare del Csm, accogliendo le tesi accusatorie della Procura generale di Cassazione. Nel dispositivo della condanna si fa riferimento alla “rimozione dall’ordine giudiziario”, dichiarando l’ex pm di Roma “responsabile di tutti gli illeciti”.
La Procura generale della Cassazione lo ha incriminato di aver ordito un sistema per condizionare la nomina del Procuratore di Roma e di Perugia attraverso la complicità di uomini politici (Luca Lotti del Pd e Cosimo Ferri di Italia Viva). L’accusa, inoltre, ha addebitato a Palamara il tentativo di screditare alcuni colleghi. Il dibattimento si è concluso in poco meno di tre settimane, in controtendenza ai tempi biblici della giustizia “lumaca” che impiega anni per raggiungere una definizione processuale. Nel Palamaragate è mancato un momento complessivo di verità affinché si indagasse sul marciume correntizio interno alla magistratura con le degenerazioni di un sistema spartitorio sulle nomine.
Tant’è che la sezione disciplinare del Csm, presieduta dal laico di estrazione M5s Fulvio Gigliotti, ha scremato l’audizione dei testimoni citati da Palamara, circa 133, preferendo soffermarsi sull’incontro dei “congiurati”, avvenuto l’8 maggio 2019 all’hotel Champagne di Roma, fra l’ex Pm di Roma, cinque consiglieri del Csm e i deputati Ferri e Lotti. Una premura sospetta del Csm nel liberarsi della figura scomoda di Palamara, che ha gravi responsabilità nell’aver architettato la sagra delle nomine, ma la corruzione è un reato che si consuma fra il corruttore e il corrotto, mentre con la radiazione dall’ordine giudiziario dell’ex presidente dell’Anm pare che in lui si incorporino entrambe le figure della relazione illecita.
Giusto che Palamara paghi per le sue colpe senza, tuttavia, generare l’ipocrisia che la sua espulsione sia un toccasana sufficiente nel percorso riabilitante per la credibilità della magistratura. Il corpo dei togati è stato liberato da quello che può definirsi un’entità bacata, ma i mali endemici alla magistratura erano preesistenti a Palamara e probabilmente a lui sopravviveranno perché non si è avuto il coraggio di andare in profondità di un sistema patologico che premia le appartenenze correntizie, svilendo la dedizione della maggioranza dei togati estranei ai circuiti della rappresentanza ideologica.
Non vorremmo che il processo a Palamara si fosse limitato a condannarne uno per salvare tutti nella velleitaria teoria che nell’ex presidente del sindacato dei togati si concentrassero tutte le colpe di un sistema che aveva delle connivenze diffuse nella magistratura. A Palamara è stato negato un compiuto diritto di difesa, escludendo dal banco della deposizione il lungo elenco di testimoni indicati dai suoi legali come se ci fosse stato il timore che potesse emergere un esteso quadro di degrado con una chiamata di correità generalizzata.
Gli abusi di Palamara hanno evidenziato un’illegalità diffusa che ha tessuto una rete clientelare come mezzo di selezione degli incarichi distribuiti agli affiliati dell’Anm. Giusto condannare Palamara, l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga lo schernì attribuendogli «una faccia da tonno», ma insabbiando l’accertamento delle plurime complicità, partecipi delle perversioni del sistema correntizio, si rischia di lasciare liberi di pinneggiare gli squali del carrierismo giudiziario: i simboli dello stato dei…”dritti”.
Andrea Amata, 10 ottobre 2020