Molte delle promesse che la parola affida ai nostri ricordi, perdono nell’atto dell’oralità la loro sacralità. E quando quella “cosa sacra” viene ad essere profanata, cioè mostrata pubblicamente, noi continuiamo comunque ad avere il bisogno di conservarla interiormente nella sua immagine iniziale. Creiamo quindi una immagine per ricordare, che non subirà affatto nessuna ritrazione nella realtà, nessuna espressione reale nel nostro presente.
La trasformazione di questa memoria in immagine avverrà sotto l’egida dunque della “immaginazione”, dal cui spazio uscirà a noi come semplice apparizione nel reale, ovvero come déjà-vu.
L’elemento “già visto” è un fenomeno che però a bene vedere non interessa solo la privata dimensione umana, ma diversamente, la sua relazione sociale e che ha interessato l’arte nella sua diagnosi più ontologica.
È infatti proprio dall’elemento già visto che l’arte ha ricevuto l’impulso vergine alla sua concrezione materiale. L’artista è oggi il risultato di una lunga immaginazione dell’ars, che era traduzione latina del termine greco τέχνη, (techne), cioè l’abilità diremmo oggi tecnica.
La trasformazione dell’artigiano antico creatore dei crateri a figure rosse attici, ad artista invece di complessi simboli figurativi, è la causa principe della nostra concezione di Arte, che si è distaccata notevolmente dalla sua matrice arcaica di techne.
Eppure è questo elemento del senso nuovo non nuovo, ossia di parto già concepito dall’idea, che allaccia le fila della storia dell’arte alla superficie remota del déjà-vu.
Ma è mai stato ritratto nella storia che conosciamo il senso del déjà–vu?
Forse un tentativo si è dato alla tecnica pittorica proprio dall’invenzione della narrazione onnisciente nella letteratura, ossia con il romance seicentesco poi arrivato non per caso nel calco anglofono di novel alla corte dei Tudor.
Un primo tentativo di rappresentare in pittura il déjà-vu fu sicuramente quello caravaggesco, dove la luce è l’emblema narratologico del tempo finzionale ritratto.
La Memoria e la Pittura d’altra parte, entrambe depongono l’immagine, l’una in maniera più significativa l’altra in maniera più comunicativa. Entrambe anche però la filtrano da un unico imbuto della coscienza, depurandola di ogni scoria del reale.
Quando però la pittura vuole costituirsi stessa memoria immaginata, cioè vuole ritrarre questa “immaginazione”, allora diventa la sede della metamorfosi del segno in sogno.
È l’occasione in cui occorre la Memory St. Francis of Assisi Monument (50x70cm, 2024) del giovane pittore cinese YanFei Tong.
Rispondente alla fattura dell’eidyllion, quadretto dalle fisionomie più piccole delle sue iconologie, rappresenterebbe un soggetto monumentale di vocazione religiosa dedicato alla vicenda francescana assisiate costruito a Roma dall’artista Giuseppe Tonnini.
L ’opera del Tonnini è del primo Novecento e rivive qui un’altra volta a distanza di cento anni per il principio dell’aemulatio horatiana. Quella del Tonnini ritratta da YanFei Tong non è una mera pubblica menzione per la sua opera, ma viene a farsi anche competitore storico in quanto iniziatore di una tradizione che ha riconosciuto proprio il “restitutore” cinese come suo nuovo autore.
Sussiste alla composizione un praetextum auctoritatis, ovvero di “autorizzazione” del modello. Non è l’unico però il modello romano che ha funto da puntello del dipinto, se accorrono alla sua resa iconografica numerose influenze futuriste e formaliste che conferiscono alla patina pittorica una gravità grammaticale.
La statua del santo di Assisi che primeggia di spalle su un podio piramidale in mattoncini di argilla cruda, è annunciata dalla retroguardia di altri tre frati noti alla leggenda di Bonaventura, scalzi e chi inginocchiato sui gradini chi solerte ad ammirare l’umiltà allocutoria di Francesco, commuovono nell’efficace fuoco prospettico retroscenico lo spettatore verso l’unità della scena che sembra pietrificarsi al momento stesso in cui l’occhio allarga la pupilla per il molteplice.
C’è un gioco sotteso alla tecnica dell’artista, che rimette in flusso narrativo la staticità monolitica della composizione in bronzo meritoria di aver solennizzato la figura ieratica, ma non di averla interpretata nella sua santità. Il gruppo statuario originario viene a indossare la nuova veste nel tessuto storico del tempo, di “originale”.
La concretezza del bronzo, la matericità dell’”elemento già visto”, viene a rarefarsi attraverso la finestra del déjà-vu.
Il respiro che esala dalla scena memorizzata, è vitale come di una normalissima scena quotidiana in un quartiere romano vista da una finestra che però non si affaccia dall’alto sulla piazza, ma guarda sullo stesso piano del passante che ammira le statue stagliarsi sull’ombra della Basilica Lateranense. Una veduta parallela quindi, intra rem, o intra scenam, che non presuppone nessuna distanza artefatta tra il monumento e la vita, ma al contrario, abbrevia il tempo di ammirazione per allungare quello di memorizzazione e compassione.
La consunzione che il colore celestino, di cui è macchiato lo specchio ai bordi dei sei riquadri equilateri del grande finestrone, mostra durante tutta la narrazione iconografica, che termina in un senso quasi orario con l’ultimo riquadro lasciato semiaperto, non chiuso, per il postero che giungerà alla memoria, per ora a lui oscura e sospesa, trasporta l’opera a un precetto universale di fugacità dell’umanità.
La brevità della vita umana, immersa nel flusso di consecutivi ricordi, è perfettamente espressa dalla pennellata secca e dura, sequenziale, che accentua il tratto filamentoso del colore, dal tono tiepido e spento, e piuttosto cupo. Ogni riquadro è inoltre contornato da una sottile cornice di colore brunastro che unendosi alle altre struttura lo scheletro della grande finestra sortisce la struttura sclare, quasi a montaggio, della memoria.
La godibilità dell’intera raffigurazione è continuamente interrotta, ostacolata proprio dalle lacune apparentemente incidentali, quasi che l’oggetto fosse stato lasciato lì da anni alle intemperie del tempo, riproponendosi come un dejavù della memoria.
Il liquido che rode la superficie di questa “scena fenestrata”, non è tuttavia il tempo, ma il sogno del ricordo. Subentrano silenziosamente quelle rimembranze leopardiane che vedendo ciò che è già visto, quindi rivedendolo, riducono questo déjà-vu a presagio della propria volontà di fronte al senso della morte, al senso dell’oppressione della scelta, e soprattutto, di ereggere della propria vita un monumento che cadrà, di fronte alla finestra da cui guarderanno gli altri, a pezzi, per ciascun occhio che lo ammirerà come memoria passata.
Mauro Di Ruvo, 7 aprile 2025
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