Un analista serio e indipendente in un momento come questo, difficilissimo per l’istituzione Presidenza della Repubblica, non può che essere vicino a Sergio Mattarella. Mi riferisco, in particolare, alla sua dimensione umana. Questa vicenda rappresenta l’atto finale di un fallimento noto e certificato che l’establishment euro-americano, e il suo sciagurato ceo capitalism, stanno consuntivando, e del quale non vogliono prendere coscienza per pura arroganza intellettuale. Ci voleva poco a capire che eliminando il fondamentale “ascensore sociale” uccidevi d’un colpo solo sia la democrazia sia la libertà, e cancellavi un paio di secoli di lenta ma progressiva crescita sociale.
Se poi hai deciso di puntare tutto su un globalismo selvaggio, era ovvio che avresti creato, in termini di contrapposizione difensiva, un sovranismo altrettanto radicale. Questa scelta è stata idiozia politica allo stato puro, tipica di una classe dominante che ogni giorno pare scivolare verso una dimensione reazionaria.
Sono certo che il Presidente abbia capito che comunque vada il paese non è, e non sarà più quello pre 4 marzo (figuriamoci come sarà dopo le elezioni europee del 2019) e la nota formuletta “lo vuole l’Europa, lo vuole il Mercato” ha ormai fatto il suo tempo.
Questo è lo stato dell’arte, questo lo scenario politico nel quale si trova a operare il Presidente. Mettiamoci nei suoi panni. È stato eletto da una maggioranza parlamentare che le ha sbagliate tutte, sia in termini di riforme sociali o istituzionali, tutte cassate, o dalla Consulta o da successive votazioni popolari di ogni tipo (amministrative, regionali, referendum, politiche). E poi con un leader che dopo mille giorni di potere assoluto si è ritrovato “odiato” dall’80% degli italiani. Addirittura un leader “voto repellente” come l’ha definito uno dei suoi.
Il partito già del Presidente, il Pd che lui all’epoca aveva partecipato a costruire, con questa scelta di sudditanza verso il “ceo capitalism” sia di matrice americana (Barack Obama) che europea (Angela Merkel e Emmanuel Macron) si è elettoralmente suicidato, diventando un soggetto politico anche lui “voto-repellente”. In questi giorni, gli analisti di regime non sanno come raccontare l’implosione del riformismo nostrano e si trovano a sognare un partito della nazione basato su un leader fallito e su uno bollito, impresentabili entrambi.
In queste condizioni, suo malgrado, la persona politicamente più in difficoltà è proprio il Presidente. Il dilemma nel quale è immerso ha un che di drammatico nella sua ovvietà: o fa il notaio o fa politica (come il suo predecessore). Fare il notaio è istituzionalmente a rischio zero. Per la prima volta dal 18 aprile 1948 i cittadini si sono espressi, dando a M5S e Centrodestra (Berlusconi è politicamente morto) la maggioranza, sia assoluta che geografica. Accettare nome del premier e nomi dei ministri, specie se fossero eletti, è atto dovuto (salvo noti impresentabili tipo l’auto candidatura aostana di Silvio Berlusconi o un Previti 2.0).
Il cosiddetto “contratto” è costituzionalmente irrilevante: i poteri del Presidente si estrinsecano non sul programma ma nel momento in cui una legge, figlia di quel programma, dev’essere da lui promulgata.
La storia repubblicana, così la prassi, è poi dalla sua parte. Renziani e berlusconiani, e tutta la grande stampa, a nome dei loro editori, sono lì a tirargli la giacchetta (ancor prima che l’indossi) perché bocci qualsiasi leghista o pentastellato a qualsiasi ruolo di governo giudicato strategico. E sono gli stessi che hanno proposto o accettato Angelino Alfano sia agli Interni (sic!) che agli Esteri (doppio sic), per non parlare dell’Istruzione, del Lavoro, e così via.
Per questi motivi mi sento vicino al Presidente che farà, nell’ambito delle sue competenze istituzionali, le scelte giuste. Ovviamente liberi i vincitori di gettare la spugna qualora il Presidente dovesse uscire dal seminato, cosa che mi rifiuto di credere.
Riccardo Ruggeri, 22 maggio 2018