A questo punto sembra tutto normale, ma voi avete mai mangiato un dito umano? Sapete come staccarlo con un morso? Ci vuole precisione, esperienza, stomaco. Non inorridite, è la normalità del viaggiare, del vivere italico, è appena successo a San Benedetto del Tronto, nelle Marche, un mama Africa ha amputato un controllore, una donna ma nessuno ha fatto un fiato e un giudice lo ha subito mandato libero nel silenzio della sinistra femminista concentrata su Sanremo, a cantar con la voce di Villain, di Elodie. Come mai non parlano? Semplice, perché la controllora è un po’ meno donna e un po’ troppo umile, inutile alla propaganda che manda al Festival dove si può parlare di tutto, meno che del reale, delle cose che contano.
Difatti è tutto surreale a partire dalla epifania narcisistica del papa pop, lo svalutato svalvolato Bergoglio (ve lo dicevo o no che ci saremmo arrivati? Ma voi credete sempre che io scherzi), fino all’isteria indotta dei notiziari che lanciano una rassegna di nullità o di scoppiati come fosse il secondo avvento di Cristo; fanno il conto alla rovescia, manco per un missile di Musk sparato nel cielo degli dèi che forse ci sono e forse no, forse lassù c’è solo metano, il gas della putrefazione, dei cimiteri. Come fa una roba tanto misera a monopolizzare l’attenzione? Ma la gente, a gran maggioranza, dice: lo vedo per quanto è trash, e vuol dire lo vedo per capire fino a che punto può arrivare la mediocrità, la desolazione. Con tutti che fanno i buffoni, ho visto un cantautore in fama di impegnato, il Brunori di famiglia borghese da Cosenza, testi di sinistra, avvolgersi in un gigantesco boa di struzzo a 50 anni, ma perché Dio santo, perché? Gabbani che girava per i corridoi dell’albergo su uno di quei carrelli portavaligie a rischio di frantumarsi. Sì, forse il successo di questa cosa così pietosa, così inconsistente sta nel fascino dell’imbarazzante e del miserabile, nel trash che vuol dire spazzatura. Ma non è una bella consolazione.
L’altra cosa che non si capisce è la pretesa, intesa come presunzione, ritenersi, credersi ciò che non si è, e più ci si pretende e e più si resta odiosi. Questo Rkomi vestito da vitellone riminese scappato dall’armadio, che non si capisce niente, che non prende una nota manco a torturarlo, ma che roba è? Ma come fa uno del genere a presentarsi davanti a dieci milioni di vittime che, sicuro, reagiscono all’unisono come la bidella di Lino Banfi, “ma come chèzzo parli”? L’orchestra per Rkomi? Per questo Irama che fa il figaccione, conciato come un pirata dei Caraibi o Napoleone? Cristo, che Paese! Questo il meglio selezionato da Conti? Questa carneficina di ogni illusione? Questa processione di cerume che provoca acufene? Ventinove maledizioni così non le regge neanche un martire professionista. Quell’altra, Noemi, sempre con la solita lagna efferata tardoromantica, solo più rauca, più invecchiata. Tutti sono vecchi, bolsi, vagamente gufeschi. I Coma Cose fanno robetta anni ’60, solo più pretenzioni e quindi stanno più sui coglioni, altro che Cuoricini. Cristicchi per un attimo risolleva il livello, la canzone è d’effetto, dedicata alla madre dalla mente evaporata e forse l’emozione gli gioca qualche scherzo. Ma che ci fai in questa fiera della morte, Simone? Marcella Bella è rattristante. Achille Lauro sembra Ettore Petrolini, è il solito bluff, il peggiore dai tempi del canto antico, anzi del pianto antico, ma è (nato) bollito e lo sa.
Conti, ci perdonasse, ci perdonassero i volonterosi carnefici di se stessi che Sanremo lo adorano, è disturbante per un eccesso di perbenismo che oscura quello dei predecessori. Se c’è un conduttore di regime è lui, oltre non si può andare. È ingessato, fisso, la maschera qualunquistica di ogni regime, ancora più spento, più anonimo, più piatto di Ama che pareva il Padreterno e si è perso nelle nebbie della sua presunzione. Potrebbe essere sostituito dall’intelligenza artificiale questo conduttore lampadato cui scappa una verità non prevista, “è il Festival dell’amicizia, ci vogliamo tutti bene”. E siccome il volemose bene, l’amichetteria è trasversale, anzi sinergica, chiama Gerry Scotti, che sembra De Gaulle, dalla concorrenza e, per stasera, la Clerici famosa in intingoli ma tirata da gnocca. Che energia!
Sommo è il cinismo di una rassegna che per aprire agita lo spettro del povero Ezio Bosso che qui nove anni fa aveva lasciato il suo straziante canto del cigno. C’era il Lampadato anche allora, conti e riconti storici a Sanremo. Dove di contaminazzione, come dice quella inviata romana della Rai, di ispirazzione se ne vede proprio poca e con titanica volontà. È un Festival di Kikazè: automi senza faccia, col nome solo, come usa adesso, sgorgati dai talent e dai reality.
E perché, il Fedez delle mille miserie e delle mille imposture che altro sarebbe? Sfilano gli alieni Bresh, Clara, Gaia, Cippa Lippa, sfilano i reduci da Giorgia a Ranieri a Marcella, le suppellettili Irama, Coma Cose, Modà eccetera e ti arrendi: il livello musicale è incommentabile, Sanremo come rassegna canora ha da gran tempo rinunciato al suo ruolo, “alla mission”, è altro, si preoccupa d’altro.
Manca completamente l’elemento sorpresa, il brivido inaspettato. Manca, per dire, il Vasco Rossi che compare completamente cotto, pieno fin qui, con una canzone che arriva ultima però sbanca, nasce leggendaria. Manca il dramma dello scandalo vero, del diverso che impaurisce e attrae. Nei cloni di cloni dei cantanti, anonimi, miserabili, buoni per i calendari, indistinguibili, come questa Gaia dalle pregevoli tette e dai lombi generosi che manda una pippa sentita le volte millanta che tutta notte canta, purtroppo, e potrebbe essere Elodie (qui sciapa e presuntuosa come non mai) come una qualsiasi altra voce senza voce che esce dai camerini di un centro commerciale. E che vi devo dire del bollito misto di Gabbani che non scia pronunciare la esse, dice “non lo sciai quello che sciento”, ma come fa un cantante a non avere dizione?
Dell’usato insicuro di Giorgia, vestita come alla festa di laurea, rimbalzata da X Factor come una esordiente (ma destinata al podio, fidatevi)? E quest’altro, come si chiama, Peyote? Con la faccia da cameriere? E chi è, il ventriloquo di Alex Britti? Olly dev’essere sicuramente scappato da qualcosa, qualcuno, si è rifugiato all’Ariston. Shablo son quelli che lo inseguono. Tormento? Sì, a sentirli. Massimo Ranieri ha la sua storia, ma me lo ricordo che lo cantavo a 6 anni e mi prende una vertigine del panico. Tra Cocciante e Aznavour questa Tra le mani un cuore, datata, ed è un complimento, ma il pathos lo insegue senza raggiungerlo, forse perché il vecchio leone ruggisce stancamente. Toh, c’è uno dei Casamonica. Ah, no, è Tony Effe. Si vabbàh, ma lassa sta er Califfo, fai trappe che è mejo. Serena Brancale è un enigma avvolto in un mistero: che caz** s’è messa addosso, chi è, perché sta qua. Brunori me lo ricordo 20 anni fa quando sgomitava, s’infilava nei backstage di Paolo Benvegnù e tanto lo sapevo che prima o dopo qua ci capitava. Come tutti gli alternativi quando non hanno più alternativa. La canzone? È una canzone, ed è già tanto, ma non fatevi incantare dalla saudade calabrese, dietro c’è pochino. I Modà sono tragicamente fuori modà, e non si capisce che altro cerchino. Clara che figa di legno mamma mia. Così giovane e così obsoleta, solo un’altra truffa insonorizzata. Fedez è agghiacciante, ha in faccia la caduta verticale dal bosco, l’artista mai stato, l’uomo finito che a furia di errori cerca di rilanciarsi spingendo sull’autopatetico oltre che sull’autotune. Il brano non esiste, è una tamarrata malinconica da San Siro. Lui negli occhi ha lenti nere che li fanno spenti come laghi secchi, come il giovane prosciugato che è, che irreversibilmente resterà. Bresh andrebbe messo in galera solo perché osa copiare il Lou Reed anni ’80, invece sembra Tananai, hai detto cotica. Sara Toscano ha 18 anni, ne dimostra 6, la canzone gliel’hanno fatta in 7, è talmente atroce, finta, improbabile, artisticamente truffaldina che avrà successo.
Crudele, cannibalesco Festival: Conti non ha chiamato Angelina Mango, che appena un anno fa trionfava e adesso si cura misteriose depressioni, e Sanremo ha già escogitato l’erede. La altrettanto inspiegabile Joan Thiele fa tutto quello che una non dovrebbe: cantare, suonare la chitarra, scendere le scale, portare la minigonna. Rocco Hunt ha dietro la sovrastruttura, guagliò, la canzona è fatta in famigghia, saranno in dodici, fa schifo, ma non si può dire se no passi nu guaio. Sempre sta retorica napoletana neomelodica che, come direbbe Pino Daniele, ci ha un po’ scassato o cazz. Vedi che ai duetti chiama la tiktoker di Roccaraso.
Francesca Michielin è oltre il patetico, è l’eterno ritorno dell’insopportabile. Un fragoroso insuccesso perenne, e pienamente giustificato, eppure sta sempre dappertutto, a pendolo, da X Factor al Festival a varia umanità. Sempre senza lasciare traccia, nell’insostenibile vacuità del non essere. Chi sono i tuoi potenti santi in paradiso, Michielin? E chi sono i demoni che ogni anno ci torturano con i jingle indecenti di questi Kolors dal cantante in guanti di pelle sadomaso? Che abbiamo fatto di male per meritarci questa pantomima di Amanda Lear del 1978 e dintorni?
Dovrebbero essere tutti arrestati per riciclaggio sottoartistico. Nei costumi da baraccone, nelle pose infantili, nelle trasgressioni d’ordine, nel conformismo dei vili che parlano di fisico ma non di cosa lo ha minato, nell’uso troppo disinvolto dei cadaveri, nello scontato saccheggio estetico Zero-Bowie-Camerini di quelli alla Lucio Corsi, nel fricchettonismo anchilosato di Jovanotti, questo mistero di successo, totalmente negato per il canto, nella irenica rottura di palle di Imagine affidata alla ebrea e alla palestinese, Sanremo riporta dritto alle cerimonie d’apertura delle Olimpiadi woke, blasfeme nature morte che profanano un residuo senso estetico. A Sanremo di estetica non ce n’è e di ermeneutica men che meno, non c’è niente da interpretare e il vuoto non si interpreta, non è la densità concettuale dei 4:33” di silenzio di Cage, è il nulla rimbombante per cui non ha senso cercare una costruzione melodica o armonica a meno di un penoso ricalco del passato come fanno i Coma Cose: come per tutto, risolvono le macchinette, gli algoritmi, le programmazioni; le linee cantate sono improbabili, di armonie e di progressioni di accordi meglio non parlare, non è proponibile alcun processo creativo, non è possibile stabilire se di un brano sia stata creata prima la musica o le… liriche, e quale parte in funzione dell’altra. Sono tutti rumori fungibili, meccanici, ma niente a che spartire con gli ètudes de bruit di Pierre Schaffer che nel 1948 dirigeva un’orchestra di treni e macchinisti, con gli sperimentalismi novecenteschi di Vàrese o quelli cinquecenteschi di Clément Janequin, “Les cris de Paris”: siamo al borbottio ritmico ottuso, sintetico liofilizzato, senza soluzione, senza phoné per coprire le carenze abissali di chi, lungi dal cantare, latra o grufola.
Per forza: le case discografiche coi loro vivai, i loro demiurghi, arrangiatori, direttori d’orchestra e parolieri sono sparite, ridotte a semplici articolazioni di multinazionali tentacolari, i cantanti vengono fuori o dal mercato dei maranza o da quello della camorra o dalla galassia influencer che significa avere un corpo decente (o orripilante, per contrasto woke) e non farsi scrupoli a metterlo in mostra, meglio se sotto l’egida della ribellione antipatriarcale organizzata, del berciare inclusivo, come tal Francamente, apprendista cantante né uomo né donna, che vuol riscrivere l’inno nazionale su basi fluide. Pagliacciata che effettivamente meriterebbe la baracconata festivaliera. Magari nel Venti Ventisei, se non ci compera Trump come Gaza.
Max Del Papa, 12 febbraio 2025
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