Ieri il direttore dell’Agenzia delle Entrate, Ernesto Maria Ruffini, recentemente riconfermato da questo governo, ha detto che il fisco non deve mai essere amico dei contribuenti. Non c’è dubbio che su questo aspetto l’attuale amministrazione pubblica stia ottenendo dei risultati ragguardevoli: in pochi lo ritengono amico. È complicato, ci viene a trovare troppo spesso, con le sue pretese è fuori mercato, non ammette repliche e sanziona con inflessibilità. Anche dai secondini si pretende umanità e garbo nei confronti dei detenuti, ma non dal direttore del fisco verso i contribuenti. Siamo tutti presunti colpevoli, fino a prova contraria. Senza che ci sia un’indignazione generale. Perché?
C’è un motivo psicanalitico, innanzitutto. Ognuno di noi fa i conti con i propri scontrini, o meglio con quelli che non ha richiesto o non ha battuto. Ci sentiamo tutti in fondo e vagamente colpevoli. Ma talmente in fondo, che riteniamo che i veri colpevoli siano altrove: le multinazionali, le banche, gli stranieri con i Suv, i villeggianti nei resort, il vicino di ombrellone. Ma la ragione fondamentale è un’altra. Siamo sottomessi allo Stato e alle sue leggi tributarie, con una sorta di sindrome di Stoccolma. Abbiamo scambiato il rapitore per il benefattore. I funzionari pubblici, dagli esattori delle tasse ai magistrati, dai politici ai manager di Stato, sono al nostro servizio e non il contrario.
Ruffini, ma anche il magistrato come il vigile urbano, dovrebbero, in uno Stato liberale, comprendere che non sono lì per volontà divina, ma popolare. Abbiamo perso il nesso per cui il civil servant (avete capito bene, gli anglosassoni lo chiamano servant) è al nostro servizio, e loro si sono dimenticati di lavorare per noi. Sarebbe troppo pretendere, come teorizzavano i grandi fiscalisti italiani alla fine dell’800, che l’origine dell’imposizione sia legata alla tariffa che la collettività paga per stare insieme nel proprio condominio. Oggi il fisco è diventato un mostro, completamente scollegato dalla spesa che alimenta.
Sarebbe molto salutare che un direttore dell’Agenzia delle Entrate per qualche tempo si mettesse a fare l’imprenditore, il negoziante, l’artigiano, il dipendente con un lavoretto autonomo, o l’impiegato che non riesce a pagare una multa per aver superato di 8 chilometri il limite di velocità cittadino, con la sua auto diesel semi-paralizzata delle aree ecologiche. Non a fini punitivi, per carità. Ma perché si rendesse conto di cosa ha detto. E di come il fisco, oltre a ridursi nelle sue pretese, dovrebbe proprio riuscire ad essere più vicino, più amico dei contribuenti. Siamo convinti che sia l’intento della legge delega realizzata dal viceministro delle Finanze Maurizio Leo. Ma in che mani l’affida?
Al governo, che ha scelto Ruffini e che maneggia i pericolosi argomenti dell’extraprofitto, converrebbe rileggere Luigi Einaudi (testo del 1907) per non farsi scrupoli: «Che i contribuenti combattano una diuturna, incessante battaglia contro il fisco è cosa risaputa, ed è nella coscienza di tutti che la frode fiscale non potrà essere davvero considerata alla stregua degli altri reati finché le leggi tributarie rimarranno, quali sono, vessatorie e pesantissime e finché le sottili arti della frode rimarranno l’unica arma di difesa del contribuente contro le esorbitanze del fisco».
Nicola Porro, Il Giornale 22 agosto 2023