Società

Il gay pride è da sempre la sagra del chiagneffotismo

Sono passati 30 anni e ogni festa arcobaleno è uguale a sé stessa: il solito vittimismo rancoroso verso i governi di destra

© adrianvidal tramite Canva.com

È terminato a Roma il Pride del trentennale e anche stavolta si leva il coro giubilante dei partecipanti: “Siamo un milione e stiamo facendo la rivoluzione”. Per la questura sono 50mila (come ogni anno), ma i partecipanti non vogliono che la realtà disturbi lo storytelling e i poliziotti -si sa- sono sempre fascisti. Come se per la questura il numero fosse dirimente: a loro interessa che la manifestazione abbia luogo senza incidenti. D’altra parte, la storia del movimento gay ha sempre cavalcato il vittimismo e dichiarato guerra a nemici più immaginari che reali: anche stavolta l’hanno fatta da padrone i cartelli contro il governo e il Vaticano, dove – a sentire Bergoglio – sembra sia pieno di simpatizzanti. Mai un ringraziamento, invece, verso l’unico politico, Renzi, che la rivoluzione l’ha davvero permessa, firmando le unioni civili. Pochissime, dunque, le sorprese: sono passati 30 anni e ogni Pride è uguale a sé stesso. Come se i gay avessero terrore del cambiamento, in questo molto simili ai loro padrini del PD, refrattari a ogni timido riformismo in politica. E Schlein e soci non hanno neppure perso l’occasione per parlare di inclusività, proprio nel giorno in cui gli omosessuali ebrei al Pride erano “personae non gratae”.

C’è una questione che rimane aperta. Perché sfilare in pubblico, rivendicando non si capisce bene cosa, quando l’omosessualità è ormai accettata senza pregiudizi? C’è stato un passato in cui i gay vivevano solo una dimensione privata e la società non era pronta ad accogliere le loro istanze. Il movimento organizzato degli omosessuali dagli anni ’70 ha condotto un lungo percorso e ha raccolto molti frutti ma ora, forse, gay e lesbiche devono evolversi se vogliono lasciare un segno nella vita sociale del Paese. Non si può occupare la scena pubblica e recitare sempre il solito rosario del deficit di diritti che mancherebbero all’appello. Sarebbe, invece, importante iniziare a pensare che c’è un tempo in cui si deve dare, non si può più solamente chiedere. Gli omosessuali sono una potenza economica, perché – ad esempio – al movimento Lgbtqia+ non è associata nessuna fondazione che abbia per scopo la tutela, la protezione, il finanziamento e la cura degli emarginati e i fragili? L’attivismo gay che tanto ha fatto in politica, non sarebbe ora che si apra spazi nel tessuto sociale?

Gli omosessuali trovino anche il coraggio di fare massa critica in ogni piega della vita pubblica, non solo nei cortei o nelle discoteche. Attualmente a Roma, la capitale, non esistono spazi per la socialità gay. Non esiste un quartiere gay come la Chueca di Madrid, ma neppure un locale, una libreria, un bar. L’alibi perfetto è che si vogliano evitare i ghetti, in realtà, io credo si preferisca ancora il nascondimento. Salvo uscire fuori una volta l’anno per la grande liturgia un po’ ipocrita del Pride, protetti dall’anonimato della folla. Senza contare, che luoghi di aggregazione collettiva permanenti facilitano il dialogo con chi ancora non conosce il mondo gay e ne può essere spaventato. Le paure si superano solo con la conoscenza e possono risolversi in modo naturale e spontaneo con l’incontro nel vissuto quotidiano. A patto che l’omosessuale non si limiti a pretendere rispetto, ma ne abbia anche lui per chi è vittima di pregiudizi o fobie. Senza colpevolizzazioni, recriminazioni o inutili piagnistei.

L’aria trionfalistica che si respira al Pride lascia, dunque, un po’ scettici, come sempre davanti a chi esibisce in maniera eccessiva il suo entusiasmo. Non può non esserci un risvolto della medaglia, ovvero quegli altri 364 giorni dell’anno in cui i gay tornano a recludersi nelle catacombe delle app di dating (Grindr, la più nota). Le possibilità di confronto e socializzazione sembrano, attualmente, confinate sul telefonino. Un ragazzo gay che non sia interessato esclusivamente a fare incontri a sfondo sessuale non sembra avere molte più occasioni rispetto a 50 anni fa. E se è vero che anche gli eterosessuali single si rivolgono alle app, non possiamo accontentarci di un tale appiattimento sulla sfera digitale, incubatrice di solitudini e frustrazioni. Invece di urlare in pubblico slogan contro la politica ritenuta responsabile di ogni male, non sarebbe, dunque, il caso di rivolgere più attenzione al coté privato rispetto alla dimensione pubblica, dove nessun diritto essenziale viene negato al cittadino omosessuale?

E ancora: il vittimismo rancoroso verso il governo non è, forse, solo una foglia di fico per dimenticare il dato reale di cui non si vuole prendere atto? Nel 2024 la comunità gay è ancora tutta da costruire e a metterla in piedi devono pensarci gli individui, non certo lo Stato.

Andrea Palazzo, 17 giugno 2024

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