Per mandare al diavolo il politicamente corretto, il primo passo è chiamare le cose con il loro vero nome. E quando la magistratura si mette di traverso nella vita politica, e come un azzeccagarbugli da quattro soldi usa ogni virgola delle leggi per piegarle ai suoi fini e togliere di mezzo gli avversari politici degli amici degli amici, ci troviamo di fronte a un colpo di stato. Legale, ma sempre di colpo di stato si tratta. Perché quando il voto dei cittadini viene annullato con dei decreti d’urgenza o sentenze di comodo, le parole Repubblica e Democrazia perdono il loro significato intrinseco e diventano stupide e inutili parole senza più senso.
Quello delle magistrature non è un golpe militare con i generali nei palazzi del potere e i carri armati nelle strade delle principali città, ma una rivoluzione legale che, in base a strane interpretazioni delle leggi in vigore, o leggi che vengono approvate in tutta fretta da maggioranze traballanti, riesce, con gli uomini giusti ai posti giusti, con i mass media compiacenti che martellano mettendo sempre in luce il cattivo da giustiziare, riesce, di fatto, a ribaltare il volere popolare che esce dalle urne o a ignorarlo trascinando il popolo in lunghissime attese di nuove elezioni che sembrano sempre più una chimera.
Si tratta di un continuo lavaggio del cervello dove la maggioranza della gente, alla fine, un po’ perché ‘se lo dicono loro vuol dire che è vero’, un po’ perché presa per sfinimento, accetta anche l’inaccettabile. A quel punto piegare lo Stato, qualsiasi Stato, diventa un gioco da ragazzi e il golpe è realizzato senza aver sparato neanche una pallottola. Bastano due firme e un paio di timbri.
Non sono rari i casi, l’ho scritto mille volte e lo ripeto, anche perché negli ultimi anni la cosa si è fatta sempre più frequente, che avvisi di garanzia e rinvii a giudizio ad orologeria, seguiti da processi infiniti, hanno rovinato la vita e la carriera a politici scomodi. E intanto la cabina di regia è occupata dagli Yes Man sotto forma di governi tecnici, che continuano indisturbati la loro opera di distruzione di quegli Stati che invece avrebbero dovuto salvaguardare e amministrare con la diligenza del buon padre di famiglia.
Ma ciò che è successo a Gerusalemme è un momento importante sia per il popolo israeliano sia, e soprattutto, per tutte le democrazie degne di questo nome. La Magistratura israeliana, che fino all’arrivo di Aharon Barak alla presidenza della Corte Suprema, era il fiore all’occhiello dell’unica democrazia mediorientale, si è nuovamente messa di traverso nella vita politica della nazione e, come ha dichiarato Edelstein, il Presidente del Parlamento israeliano, con un decreto ha violato la legge che attribuisce al Presidente della Legislatura passata i tempi di convocazione di quella nuova e dell’elezione delle cariche interne. Se questo non è un tentativo di golpe è comunque una mossa che gli somiglia tantissimo.
Si voleva, in combutta con chi da quelle elezioni era uscito perdente, accelerare i tempi dell’elezioni di un nuovo Presidente del Parlamento che mettesse rapidamente ai voti una legge che impedisse a Netanyahu, che ha tre rinvii a giudizio emessi dalla stessa Magistratura, di diventare Primo Ministro. Non una sentenza di condanna, ma un semplice rinvio a giudizio. Praticamente sarebbe stata, anche in futuro, la Magistratura a decidere chi poteva essere eletto e chi no perché, alla fine della fiera, un rinvio a giudizio seguito da un processo infinito non si nega a nessuno.
Ma quei tre rinvii a giudizio c’erano anche prima delle elezioni e, nonostante tutto, il vecchio leader ne è uscito vincente, nonostante tutto il popolo, fregandosene di quello che diceva la Magistratura, gli ha, ancora una volta, dato la fiducia che merita. E in democrazia è il popolo ad avere l’ultima parola. Ma non è tutto, il voto, a quelle condizioni, è stato il segno tangente che la fiducia nei confronti di certa Magistratura, è scemata nel tempo fino a toccare, complici alcune sentenze ancora oggi incomprensibili, il livello più basso.
Soprattutto dopo le parole di Edelstein, il Presidente del Parlamento che, davanti a un’assemblea svuotata dal Coronavirus, ha tuonato contro i Giudici nel momento in cui ha dato le sue dimissioni pretese per decreto dalla Corte Suprema, parole che hanno messo in luce la guerra interna fra i poteri dello Stato, parole che hanno fatto fallire il tentativo di golpe che voleva annullare gli effetti del voto popolare. Parole che hanno fatto salire ulteriormente l’asticella del malcontento popolare che ha incominciato a serpeggiare forte nell’aria. Malcontento che non può essere sfuggito a Ganz che, a quel punto, ha capito, non per il bene della patria ma perché non aveva alternative, che da una quarta tornata elettorale ne sarebbe uscito con le ossa rotte.
Benny Ganz, che guidava il partito Kahol Lavan, (Blu e Bianco), l’ammucchiata dei partiti anti Netanyahu, consapevole che per andare al governo avrebbe dovuto elemosinare i voti dai partiti arabi che, per loro stessa ammissione, avrebbero minato dall’interno la nazione con le pericolose derive che ne sarebbero sicuramente scaturite, non gli è rimasto che abbandonare i compagni di cordata e scendere a patti con il più navigato statista per dare alla nazione un governo di unità nazionale. Un governo forte che possa guidare Israele in questo periodo di pandemia mondiale.