Amare significa non dover mai dire “mi dispiace”. Fare il buon amministratore significa non dover mai dire “mi si stringe il cuore”. Dal film cult degli anni Settanta alle penultime parole di Virginia Raggi come sindaco (sindaca, ops) il passo non è poi così lungo. Ci sono parole inappropriate sempre. Anche perché il più delle volte chi dice “mi dispiace” in realtà non si dispiace affatto. E chi mostra un cuore contrito (dopo) è perché (prima) non ha fatto il suo dovere.
“Per adesso aspettiamo l’esito delle indagini. Ma io non mollo, amo Roma” ha dichiarato Virginia Raggi dopo il rogo del Ponte dell’Industria, confermando il nesso tra “Love Story” e “Rome story”. L’incendio è stato provocato da una bombola di qualche nomade che da mesi bivacca sotto i forcipi lungo il Tevere, o da un cortocircuito, ma certamente non sarebbe arrivato a distruggere il ponte se fosse stato regolarmente eseguito lo sfalcio di erbacce e arbusti che si moltiplicano lungo le sponde del Tevere così come nella gran parte delle aiole della città: impraticabili se non per qualche bivacco irregolare.
L’incendio del Ponte dell’Industria resterà come il suggello dei cinque anni dell’amministrazione Raggi a Roma. Eppure, un romano su cinque – tra i pochi che sono andati a votare – le ha ridato fiducia. Sarebbe interessante vedere le percentuali tra Testaccio e Ostiense (per chi non è romano sono i due quartieri rimasti sostanzialmente isolati dopo l’incendio: solo qualche centinaio di migliaia di cittadini). Le astensioni sono la risposta più eloquente.
Non c’è da essere soddisfatti se il 30% degli italiani elettori (più o meno quelli che tra il 2016 e il 2018 hanno scelto di votare M5s) ha scoperto di essersi sbagliato. Il voto è liquido come la società, ma se in cinque anni si perdono i due terzi dei consensi vuol dire che qualcosa è finito. Ha fatto bene Chiara Appendino, la sindaca “pentastellata” di Torino a non ricandidarsi. Ha mostrato di capire prima e meglio di altri che un tempo si è chiuso. È rimasto aperto solo quello degli interessi personali.
Virginia Raggi è tra i leader del M5s quella che ha avuto il miglior risultato elettorale, confermando che la “rivoluzione grillina” ha fatto del bene a molti: uno steward dello stadio San Paolo (allora non era ancora intestato a Maradona) diventa ministro, un ignoto avvocato diventa premier, un’assistente di un Caf piemontese diventa viceministro alle Finanze. E una praticante avvocato sindaco di Roma. E oggi si accontenta dello stipendio di consigliere comunale, meglio che niente. L’ascensore sociale con M5s ha funzionato. Per loro.
Tutti gli altri si sono accorti che dopo aver aperto la scatola del tonno – per riproporre una mediocre metafora del comico leader – i grillini hanno mangiato e mangiano con gusto, dovunque abbiano potuto farlo, senza creare mense per i cittadini. Già, i cittadini, quelli che “non sono mandrie da portare al pascolo” come ha commentato la sindaca di Roma dopo la disfatta, ma che vorrebbero non trovarsi a vivere a fianco di cinghiali al pascolo, sotto casa. Già, i cittadini, quelli che non vorrebbero trovarsi nei bus a combustione totale, quelli che vorrebbero strade senza buche, quelli che si accontenterebbero di vedere i rifiuti rimossi regolarmente dai cassonetti.
Di novità politiche così, ne abbiamo già viste abbastanza. Cambiamo capitolo. Solo l’idea di allearsi con i resti di questo “nuovo” dovrebbe produrre orticaria, invece c’è chi progetta alleanze, perché anche il 5% in politica è buono, anche se è vecchio, e anche se serve solo alla carriera degli “insoliti ignoti”.
Antonio Mastrapasqua, 6 ottobre 2021