Ho scritto saggi, articoli e libri sul liberalismo. Mi considero anche un liberale, e da tempi non sospetti, cioè da quando, negli anni Ottanta del secolo scorso, era quasi controproducente definirsi tali. Ho assistito con partecipazione alla “riscoperta del liberalismo” che, per quanto edulcorata, c’è stata in Italia a partire dagli anni Novanta. Pur non piacendomi le mode, in fondo mi compiacevo del fatto che all’improvviso tutti, anche gli ex comunisti, si dicessero liberali. Mi sono accorto poi presto che il loro era solo un travestimento, l’ennesimo, perfettamente in linea con la doppiezza togliattiana: alla prova dei fatti erano rimasti illiberali dentro.
E la loro vera anima è venuta fuori in maniera esplicita, appena la globalizzazione ha mostrato i primi segni di crisi. In verità, un processo simile è avvenuto anche a destra, tanto che oggi a definirsi “liberali” sono rimasti solo gli apologeti del “politicamente corretto”, cioè coloro che per principio escludono la conflittualità, e cioè appunto il liberalismo, dalle vicende umane e politiche. Per questo motivo, pur rimanendo nel profondo un liberale, preferisco non più definirmi pubblicamente tale. Il rischio dell’equivoco è dietro l’angolo e coi liberal proprio non voglio confondermi. Così non la pensa però, evidentemente, Mara Carfagna, che ha appena creato una sorta di associazione politico-culturale, pronta a diventare un partitino, che ha definito “liberale, europeista e garantista”. L’unico collante dell’associazione sembra essere l’antisalvinismo, più o meno come lo è a sinistra per le Sardine, il cui manifesto è per la Mara “condivisibile in più punti”.
Di punti il manifesto, in verità, ne ha solo sei e, tranne l’ultimo concernente l’eliminazione del “decreto sicurezza” voluto dal precedente governo, essi rappresentano, comunque li si veda, per populistico semplicismo, il grado zero della politica.