Anni fa, quando fui invitato a invitare alla lettura delle Lettere del Perdente. Un racconto comico sulla vita, la morte e l’ateismo di Mary Eberstadt (ed. Nova Millennium Romae) fui subito incuriosito da quel «comico» e, dopo averlo letto, mi ricordai di quand’ero ragazzino (tanto, tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana…) e vidi in tivù una gag di Alberto Sordi, che era uno dei maggiori attori comici italiani.
Sordi e la gag sugli americani che ridono
A quell’epoca non c’era il low cost e per gli italiani l’America era un mito, così che quei pochi che avevano avuto la fortuna di andarci potevano raccontarne le strane usanze, e noi ci credevamo. Sordi, quella volta, spiegò al pubblico come ridevano gli americani. Con l’inflessione falso-inglese di Ollio (Sordi era stato a lungo doppiatore di Oliver Hardy), faceva finta di essere un comico americano invitato a uno show: entrava, salutava, si avvicinava al microfono (a quel tempo ancora a stelo) e diceva: «Oh, quante signore col cappellino!». E tutti ridevano. Poi aggiungeva: «Oh, quanti signori senza cappello!». E giù risate. Insomma, noi, a casa, eravamo, così, confermati nell’immagine classica dell’americano un po’ tontolone che rideva per niente.
Solo nel crescere mi resi conto che gli americani non sono affatto tontoloni né quei bimboni ingenui che loro stessi, per esigenze belliche, avevano diffuso nell’immaginario mondiale dal 1943 in avanti. Ai miei tempi (tanto, tanto tempo fa) ridevamo noi delle loro camicie a fiori e degli occhiali con lo strass delle loro signore. Oggi i cosiddetti giovani (cioè, tutti) vestono con scarpe ginniche, jeans e felpa, più il cappellino con la lunga visiera. Esattamente come gli operai americani. Per quanto riguarda le risate, be’, ho un caro amico settantenne che si sbellica come un pazzo ogni volta che vede Bud Spencer far volare cinque o sei energumeni con un solo cazzotto. Sono cinquant’anni che lo guarda ma ogni volta si scompiscia. L’anno scorso sono stato a teatro, a vedere una commedia di Goldoni. Dico Goldoni, cioè roba del Settecento, roba stravista, insomma, da più di due secoli. Ebbene, la gente, pur milanese, in sala rideva a ogni battuta in veneziano (io no, perché non capivo, e mi stupivo di essere il solo). Sì, nel Terzo Millennio. Come si fa a ridere di una barzelletta già sentita almeno dieci volte? Non lo so. Forse il musone sono io.
Un mondo che ci è vicino
Questa lunga premessa mi è stata ispirata da quel «comico», come dicevo, letto nel sottotitolo del libro della Eberstadt. Come sa chi lo ha letto, tutti i riferimenti sono very american e sembra di sentire i dialoghi serrati delle soap opera televisive. Un mondo, quello che fa da sfondo ai discorsi frizzanti della Eberstadt, non così lontano da noi, specialmente coloro che hanno un’età inferiore alla mia. Molti di noi non sono mai stati in un campus americano ma su quel che vi succede siamo quasi quotidianamente informati da una valanga di film e telefilm che spaziano in tutti generi, dal comico all’horror, passando per il dramma, la commedia, la fantascienza e il giallo.
Dunque, il mondo della Eberstadt, pur così americano, non ci è estraneo. Anzi. Ormai, la sappiamo più lunga sulle frustrazioni di un poliziotto di Los Angeles che sui problemi del vicino di casa. Per questo le riflessioni della Eberstadt non ci sono estranee, dal momento che viviamo in tempi di globalizzazione, che qualche malalingua ha definito più propriamente americanizzazione. Non possiamo più non dirci americani, anche se non indossiamo pantaloni col cavallo alle ginocchia o berretti con la visiera all’incontrario (e magari la bandana sotto, come i neri di Harlem).
La dittatura della minoranza
L’Autrice vive in un mondo in cui, come nel nostro, comanda la minoranza, una minoranza davvero esigua ma che occupa tutti i posti disponibili nella comunicazione. C’è da capirli: non sanno fare altro. La propaganda è la loro unica specialità e riescono a far credere all’intero pianeta che tutti, là, siano come loro. Invece i numeri ci dicono che gli Stati Uniti sono un Paese a stragrande maggioranza cristiana. Ma gli atei e gli agnostici lavorano tutti a Hollywood. O nelle grandi catene televisive o nei network a stampa o nei social. E si cooptano l’un l’altro, avendo cura di tener fuori i credenti. Da buoni imbonitori, quel che temono di più è il ridicolo, cioè che una risata li seppellisca o che qualche ragazzino si metta a gridare che il re è nudo.
Ottima, dunque, l’idea della Eberstadt di prenderli in giro e di mostrarli coi calzoni in mano. Speriamo che qualche credente italiano, liberale o solo conservatore (come Marcello Marchesi, Ennio Flaiano e i rarissimi umoristi italici), la imiti, anche se non ci speriamo. Far ridere, infatti, è la cosa più difficile del mondo, impossibile a chi non è nato molto spiritoso. Eppure, bisognerebbe ricordarsi che lo humour è una virtù cristiana (e Croce ricordava ai liberali il debito), tant’è che san Tommaso d’Aquino qualificava di peccaminosa (addirittura) la mancanza di umorismo. Fateci caso: le librerie cosiddette religiose traboccano di testi. Ma non ce n’è uno, neanche uno, umoristico.
I cristiani non sanno ridere? È quello che sostengono gli atei, che pur sono funerei come Nietzsche. Qualcuno potrebbe ribattere che non c’è niente da ridere. Invece c’è, c’è sempre. Anche di fronte al tribunale che lo avrebbe condannato a morte san Thomas More non lesinava battute. E san Paolo esortava, e insisteva, a essere lieti. Sorga, dunque, tra noi un umorista che ci faccia schiattare dalle risate e ridendo castigat mores, quelli dei tempi relativisti (i.e. ridicoli) in cui ci tocca vivere.
Rino Cammilleri, 6 settembre 2022