I fatti che diedero la nascita a quella che il gergo cronistorico chiama “Deposizione Borghese” sono legati al sangue d’una famiglia che ha ordinato la storia della bellezza in un italiano disordine di genti.
Una notte perugina, un 3 luglio velenoso, e un anno numerato 1500. Sono queste le coordinate che iscrivono la vendetta del superstite Giampaolo Baglioni sul cugino Grifonetto, figlio di Atalanta Baglioni, che aveva preso parte alla strage ordita da Carlo Baglioni contro i suoi prozii Guido e Rodolfo, padroni della città di Perugia. Quel giorno era convolato a nozze suo cugino Astorre Baglioni con la nobildonna romana Lavinia Colonna. Il duca di Camerino Giulio Cesare Varano aveva appoggiato la congiura perugina a riprova della grande implicazione politica e territoriale che questo eccidio richiedeva. Grifonetto fu dunque ucciso nel corso principale della città , quello che porta al Duomo, e la sua morte bagnò di rosso il borgo perugino, tale che lo strazio della madre Atalanta la portò a pronunciare la famosa frase: «Che questo sia l’ultimo sangue che scorre su Perugia».
Ovviamente non fu così dopo che il corpo di Grifonetto fu seppellito nella cappella familiare della Chiesa di San Francesco (oggi al Prato), laddove già Raffaello aveva consegnato per la famiglia rivale degli Oddi l’omonima pala raffigurante l’Incoronazione della Vergine.
La narrazione che ci giunge dal Vasari sulla commissione della Deposizione a Raffaello riferisce quest’ultima alla data presumibilmente del 1505, ossia un anno dopo il capolavoro dello Sposalizio della Vergine a Città di Castello.
Raffaello compariva in tutta l’Umbria nei documenti segnato già come “illustris Raphael” all’età di 17 anni, gli anni cioè in cui dipinse la Pala Baronci per San Domenico nella città tifernate, e si capisce perché allora una madre straziata che però era donna Atalanta Baglioni abbia voluto affidare all’ormai pittore di famiglia una scena così desueta e inconvenzionale come il trasporto di Cristo al sepolcro («un Cristo morto portato a sotterrare» dice il Vasari).
L’opera che oggi ci appare smembrata della cimasa e della predella per opera della prima requisizione napoleonica avvenuta nel 1797, è una pala d’altare in forma di polittico pervenutoci in uno stato conservativo abbastanza discreto, sebbene è piuttosto sicura l’eterografia della cimasa, alla cui mano è stata vista molto vicina la figura del peruginesco Domenico Alfani.
Dopo che Canova riuscì a recuperare il pannello dal Louvre lo riportò a Roma nel 1815 dove fu ricollocato nella sede di Galleria Borghese. Ci saremmo immaginati invece che la sua sede fosse San Francesco al Prato di Perugia e non una collezione cardinalizia. Ma è proprio questo il problema che porta con sé l’opera raffaellesca.
Un dipinto al quale il “divin pittore” lavorò molto durante la sua ultima permanenza a Perugia, probabilmente impiegandogli ben due anni, ma che avrebbe aperto definitivamente per il giovane Urbinate le porte del Vaticano che da quel momento sarà uno dei suoi principali committenti, così come lo fu per il suo maestro Perugino. Un dipinto fatto per il sangue e premiato dalla Fortuna.
I molteplici disegni preparatori che ci sono giunti di Raffaello riferiti a questo soggetto iconografico ci attestano gran parte non solo dell’iter compositivo dell’Urbinate per quest’opera, ma getta ancora più luce su quella famosa “natura ideativa” che aveva bene evidenziato la Ambrosini Massari in un suo recente saggio su Raffaello giovane.
L’iconografia da cui parte Raffaello non è infatti quella che noi oggi vediamo, ma è ben diversa, e appartenente alla tradizione peruginesca e umbra. È un Cristo morto già deposto quello che Raffaello riprende dal Compianto sul Cristo morto del suo maestro Pietro, dove Maria occupa il centro della scena in secondo piano, dietro la sagoma del Messia, mentre gli sorregge carezzevolmente il braccio, affiancata dalla Maddalena che reggendo la testa del Cristo gioca un ruolo qui del tutto innovativo per la resa tecnica del velluto. San Giovanni è all’estremità della scena che raccoglie inginocchiato i lembi del sudario. Ma Cristo è qui seduto e col torace leggermente reclinato all’indietro.
Più tardi i disegni mostrano uno studio su un cambio iconografico del soggetto, e maggiore attenzione è data da Raffaello per la concezione volumetrica dello spazio a doppio arco, e alla figura che tiene sospeso da terra il corpo di Cristo, con una particolare cura al dettaglio del braccio penzolante. Il torso di Cristo si è steso più aderente al lenzuolo e la centralità totale che prima investiva Maria adesso è sdoppiata nella figura della Maddalena che sorregge sia il braccio che la testa del Messia, e nella figura del giovinetto che soppianta il vecchio san Giovanni, ora spostato a sinistra mentre regge il peso del corpo divino. Il disegno ha virato sul modello del Mantegna emulatore del sarcofago romano con la storia di Meleagro. È con Raffaello che viene “autorizzato” il leitmotiv del “braccio della morte”, che perdurerà sino alla Deposizione del Caravaggio.
Da qui la mutata natura di “deposizione” a “trasporto” di Cristo, che sembra quasi simulare o evocare il corteo funebre che ha trasportato il corpo esanime di Grifonetto lungo il corso principale sino alla Cappella di famiglia.
Sull’identità del giovinetto su cui sembra quasi concentrarsi la triste scena, rapendo l’attenzione dello spettatore con la sua grazia intrisa di eleganza armonica nello spirito e nel corpo, è ancora difficile essere completamente concordi. Tuttavia molta parte della critica ritiene che sia un omaggio di Raffaello alla giovinezza spezzata di Grifonetto, forse anche dietro certe suggestioni che gli sarebbero derivate dalla moglie Zenobia, ma che in ogni caso permane uno dei simboli tipicamente raffaelleschi e inspiegabili del topos albertiano di bellezza.
L’invidia che suscitava il dipinto a chiunque spettatore poteva permettersi di acquistarlo contro il consenso della città di Perugia e della famiglia intestataria, è la chiave con cui ridurre a leggenda il trasferimento del politico dalla cappella Baglioni, improvvisamente nell’anno del 1608, nelle stanze del Papa Paolo V a Roma. Il pontefice avrebbe esercitato una pressione personale sui chierici di quella Chiesa e frati che avrebbe spinto loro a prelevare tacitamente l’intera opera dalla sua Cappella e farla reperire a un emissario del Papa. È a Roma che l’opera fu smembrata e il pannello principale fu donato previo un breve apostolico al nipote del pontefice il cardinale Scipione Borghese, esperto di belle arti e appassionato cultore della pittura e della scultura. Fu lui infine ad annetterla in piena tranquillità alla sua collezione, sotto il protettorato dello zio che avrebbe comunque garantito la liceità del passaggio di proprietà attraverso il suo dominio sull’Alto Tevere e sul Trasimeno. La documentazione di quell’anno sullo stato di conservazione delle opere a San Francesco non menziona alcun riferimento a questo trasferimento che provocò un danno immane a Perugia e ai suoi abitanti non solo culturale, ma soprattutto identitario.
Il furto della Pala Baglioni suonò come un vero e proprio sopruso del potere papale sul Comune di Perugia che invano rivendicava la proprietà ormai demaniale del capolavoro raffaellesco. È comunque possibile che la giurisprudenza canonica di allora non prevedesse in questo caso la fattispecie di delitto non essendoci affatto tracce di prove del furto e testimonianze che accertino il fatto. Che la giustizia odierna voglia che il furto sia stato ordinato dal pontefice o che sia stata una iniziativa dei frati francescani, rimane tutt’oggi un mistero.
Mauro Di Ruvo, 25 febbraio 2025
*Critico letterario e storico dell’arte
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