Esclusivo

Il Paese senza internet

L’Eritrea non può o non vuole aprirsi al mondo. Il presidente ha bloccato tutto. Ma gli anziani parlano ancora italiano

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reportage eritrea

Pare impossibile ma esistono nazioni senza internet. Paesi dove gli smartphone sono tornati a fare i telefoni, dove non ci si manda messaggi via whatsapp né email, non si postano story su Instagram, non si controllano le previsioni meteo e non si ha Google Maps per orientarsi, né una delle migliaia di app a cui ci siamo abituati. Uno di questi rarissimi paesi è l’Eritrea.

Che fosse un paese difficile l’avevo intuito quando all’aeroporto di Istanbul, invece di un comodo volo diretto, avevo dovuto fare tappa a Jeddha su un volo speciale per i pellegrini della Mecca, e da lí prendere una low cost a breve raggio per Asmara. Già, perché nell’aeroporto della capitale non si trovava più carburante e avevano quindi cancellato tutti i voli che richiedevano rifornimento.

Due indizi che hanno subito reso evidente una cosa fondamentale: questo paese non vuole, o non può, aprirsi al mondo.

Proprio in quell’Africa così avanti nelle telecomunicazioni (la maggior parte dei paesi africani ha saltato tanti passaggi e si è subito attrezzata con 4G e 5G) l’Eritrea è decisamente controcorrente. Un piccolo scoglio isolato in un mare di connessione. Poco più grande della Svizzera, affacciata su un mare meraviglioso di fronte all’Arabia Saudita, dai suoi porti – quello axumita di Adulis e poi di Massawa – sono transitati arabi, yemeniti, greci, portoghesi, turchi, egiziani. Dal mare sono arrivate popolazioni arabe e dall’interno popoli di origine sudanese.

Ma questa vocazione aperta e accogliente è stata lentamente soffocata dal presidente Isaias Afewerki – in carica da 30 anni – che, iniziando da YouTube, ha deciso di bloccare qualsiasi connessione internet, giudicando la rete un pericolo gravissimo per i giovani. Il risultato è che il paese vive in una strana atmosfera, fermo nel passato, scollegato dal mondo.

 

Ci sono solo un paio di posti nel paese dove internet funziona, sebbene sporadicamente e praticamente solo di notte: due hotel ad Asmara e un internet caffè a Cheren. La gente si ammassa nella reception dell’albergo o si accaparra un posto nello stanzino dell’internet café dopo code interminabili, e pazientemente tenta di utilizzare la singhiozzante connessione sovraccarica. Capisco solo allora perché Philemon, la mia guida, mi mandava whatsapp solo nel pieno della notte.

La forte sensazione di essere in una “bolla temporale” si rafforza ancora di più girando per Asmara, con la sua architettura fascista perfettamente conservata. L’Albergo Italia, il cinema Impero, il teatro Roma, e poi le ville liberty, corso Italia, il distributore Fiat, icona della città, e i tanti caffè Aurora, Vittoria e Rosina dove si beve l’espresso seduti ai tavolini di formica come nei bar italiani degli anni cinquanta. Sembra di essere in una delle nostre cittadine della provincia laziale, una Sabaudia o Latina di cinquant’anni fa, popolata però solo da neri. I vecchi parlano italiano, tanti hanno frequentato la scuola italiana chiusa solo recentemente, e sono figli di italiani e donne eritree. E tante parole italiane sono entrate nella lingua tigrina, raccontando molto di cosa l’Italia ha portato: ad esempio macchina, forno, cemento, e poi falegnamo (falegname), mbresa (impresa), aranci (arance).

L’Italia ha lasciato qui un segno fortissimo – le uniche strade che ancora collegano Asmara a Massawa o a Cheren sono state costruite da ingegneri italiani. I viadotti, la ferrovia avveniristica (64 ponti e 30 gallerie su 2.400 metri di dislivello – una littorina fiat dei primi del 900 ancora viaggia su e giù dall’altopiano), gli edifici pubblici, tutto è stato creato durante il sogno coloniale italiano. Le poche industrie e i grandi sviluppi agricoli sono nati in quel periodo, poi smantellati dagli inglesi quando dopo la seconda guerra mondiale il paese è stato affidato a loro.

Ma tra il 1890 e il 1941 gli italiani qui hanno creato un mondo, davvero una “piccola Italia”, e per questo, a differenza di tante drammatiche esperienze coloniali, gli italiani non sono stati odiati. Anzi. Nella confusa fase post-bellica, quando il paese ha cercato invano l’indipendenza, esisteva anche un partito pro-Italia, il New Eritrea Party nato nel 1947 per promuovere l’indipendenza del paese sotto la direzione dell’Italia. Unico caso nella storia in cui i colonizzati auspicano il ritorno dei colonizzatori (se i francesi lo sapessero impazzirebbero di invidia). L’Italia è rimasta non solo nell’architettura, ma nella loro cucina, dove gli spaghetti e le tagliatelle affiancano quali piatti nazionali lo zighiní, lo stufato speziato con il berberé. Il giornale della colonia, il Corriere Eritreo, in lingua italiana, è stato stampato fino al 1975. E ancora adesso i bambini urlano “Italiani” per indicare qualsiasi bianco.

 

Ad Asmara, tra i viali alberati e le bouganville strabordanti sotto il cielo quasi perennemente blu, nell’aria fresca dell’altopiano, non c’è la tipica confusione africana, le folle in perenne movimento o la polvere del Sahel. Qui le strade sono pulite e ordinate, e il traffico non è peggiore di quello delle nostre città.

La vita qui sembra dolcissima, il ritmo è lento, si muove ondeggiante come gli abiti colorati delle donne Bilem che vanno a messa nell’ imponente cattedrale cattolica.

Una quiete che sa di rassegnazione. Un paese così giovane, nato nel 1991 dopo 30 anni di guerra di indipendenza (1961-1991), è rimasto soggiogato ad una dittatura di fatto. Un solo partito ammesso (il partito di governo PFDJ People’s front for democracy and Justice), tutti gli altri partiti (circa una decina) dichiarati illegali, un presidente in carica da 30 anni, il paese non ha ancora una costituzione e l’acqua e l’elettricità vanno e vengono (l’unica centrale elettrica è nelle mani dei cinesi).

Asmara concentra buona parte della popolazione del paese, anche qui l’inurbamento è inarrestabile. I pochi giovani rimasti nel paese – sono quasi tutti emigrati, le rimesse (forzose) rappresentano una buona parte del PIL – si concentrano qui per cercare un lavoro che difficilmente troveranno. E mentre i giovani scappano, le donne che restano si vendono ai pochi expat occidentali per una doccia e una bottiglia di vino, cosí mi raccontano alcuni italiani che vivono qui da anni.

Eppure è un paese che ha combattuto come nessun altro per la propria indipendenza. Dopo il periodo coloniale italiano, alla fine della seconda guerra mondiale è diventato un governatorato inglese, poi ceduto dal 1974 all’Etiopia. E dal 1961, per 30 anni, gli eritrei hanno combattuto per l’indipendenza. Senza sostegni esterni, male armati (dalla Russia), hanno vinto grazie ad una guerriglia capillare condotta da uomini, donne (il 30% dell’esercito) e ragazzini. Con i sandali ai piedi e i calzoncini corti, sulle montagne dell’altopiano ai confini con l’Etiopia, in 300.000 hanno sconfitto l’esercito Etiope affiancato da varie superpotenze. Una guerriglia in stile afgano, forse ancora più efficace. La capacità di combattere era già emersa nel periodo coloniale, gli Ascari erano stati uno dei migliori corpi d’armata nell’esercito italiano e hanno partecipato a tutte le guerre italiane in Africa, dalla Libia alla Somalia. Il loro cimitero di lapidi bianche e anonime a Cheren è commovente.

Scendendo da Asmara verso il mare lungo la ripidissima, spettacolare strada che taglia le montagne (così ripida che c’è una barriera perenne di nebbia fittissima a metà discesa, quando l’aria dell’altopiano si scontra con l’umidità del mare), si vedono ancora ponti dedicati a generali italiani, e scritte che ricordano le battaglie italiane di fine 800.

A Massawa è rimasto profondissimo il segno della guerra. La loro guerra, quella di indipendenza dall’Etiopia, terminata solo nel 1991. Quando hanno perso, gli etiopi per 30 giorni hanno bombardato a tappeto Massawa, la città più bella, ricca di moschee antichissime (la prima del continente africano), di palazzi in stile arabo, ville ottomane e case fatte di corallo, in cui sono passati schiavi e incenso, perle e mirra, giraffe e struzzi.

Ora sono solo macerie, la piú imponente quella della Banca d’Italia, e la città antica, sorta su due isole coralline circondate dal mare, si è spopolata. Qualche famiglia vive tra i muri pericolanti delle rovine tra cui giocano cani e bambini. La distruzione ha fermato il tempo come in una fotografia rovinata.
La popolazione è tornata a vivere lungo la costa. È qui che i sorgono i tanti villaggi afar e tigré, capanne di fango e legno o lamiera in cui si muovono con infinita grazia le donne, esili e elegantissime nei loro abiti colorati rossi, arancione, verde e con l’anello agganciato alle narici sui visi affilati. A tratti si incrociano piccoli clan della tribù nomade dei Rashaida, etnia araba, le donne nascoste sotto veli neri. Poi risalendo l’altipiano verso nord, attraversati boschi di euphorbie, si ritrova l’atmosfera del Sahel. Lungo la strada spuntano i villaggi Kunama con la loro efficiente organizzazione matriarcale (le donne possiedono tutti i beni della famiglia e possono cambiare marito quando vogliono, lasciandolo senza figli, proprietà e soldi).

A Cheren, tra le moschee del colore della sabbia, le donne bilem con il pendente sulla fronte si avvolgono nelle leggere garze bianche bordate, vanno a pregare cantando nelle chiese cattoliche e copte sparse sull’altopiano. Il mercato di cammelli e ovini è come tutti i mercati di animali del Sahel, polveroso e affollato di uomini con le tuniche bianche. Feste e matrimoni lungo la strada restituiscono l’impressione di un popolo che vuole vivere, e questo rende ancora più amaro constatare come dopo 30 anni di guerra, proprio nel momento della conquista dell’indipendenza, questa gente si sia ritrovata davanti ad un futuro incerto e di sicura povertà, senza aver vissuto neppure un giorno di democrazia. In questa convivenza tragica di un passato di guerra, visibile ad ogni istante, e di un futuro solitario e senza risorse, sta tutta la dimensione drammatica di questo paese.

Un paese che a noi italiani restituisce, in uno strano effetto specchio, uno scorcio di ciò che siamo stati capaci di fare. E forse per questo, il suo presente incerto ci colpisce ancora di più.

Luisa Bianchi, 1 novembre 2024

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