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Il paradosso del liberalismo che ammazza la libertà

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Terza e ultima puntata sulla deriva del liberalismo (sperando che qualcuno ci metta una pezza prima che sia troppo tardi). Non è forse in nome del liberalismo che ormai ogni vizio rivendica sdoganamento, cittadinanza e libertà di proselitismo? Ma l’anarchia morale non si ferma se non sfocia nel totalitarismo: è sempre in nome del liberalismo che si invocano leggi-bavaglio per chi non condivide le “novità”.

Democrazie violate

Già abbiamo decurtato la nostra libertà di espressione con la Legge Mancino, ora si profila la Legge Zan. I periodici imbrattamenti della statua di Montanelli indicano che anche da noi la “cancel culture” non vede l’ora di fare quel che già fa negli Usa. Che era la “patria” del liberalismo e della democrazia. L’altra “patria” era l’Inghilterra, oggi paradiso dell’eugenetica e del cambio di sesso, in cui c’è già chi chiede l’epurazione perfino di Churchill. E non è in nome della “libertà” che l’Europa settentrionale si sta estinguendo demograficamente a colpi di eutanasia (cd. libertà di autodeterminazione)?

Se uno vuol fare del suo corpo quel che gli pare, perfino sopprimerlo, in nome di che impedirglielo? E se uno vuol trasformare il suo vizio privato in una pubblica virtù, come sta accadendo, in nome di che vietarglielo? “Una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo, come dimostra la storia” (Giovanni Paolo II, enciclica Centesimus annus, n. 46). Il totalitarismo, appunto: la Russia bolscevica fu la prima a legalizzare l’aborto, e fu poi Stalin a vietarlo quando ebbe bisogno di “figli alla Patria”. Ecco come la massima libertà finisce nell’anarchia e questa nel totalitarismo. Cosa intendeva, dunque, papa Wojtyla per “valori”? Almeno quelli della legge naturale. Su quest’ultima è stata costruita la tradizione occidentale, che è giudaico-cristiana e trova il suo fondamento ultimo nel Decalogo. Senza quest’àncora, ogni altra cosa è un chiodo dipinto sul muro a cui vanamente si cerca di appendere la giacca.

La “legge naturale” passa dalla cinematografia

Che cosa è quel che ho chiamato legge naturale? È quella che tutti abbiamo incisa nella coscienza ed è nata con noi. Personalmente ho percepito la sua esistenza al cinema. Proprio così. Nei thriller spesso l’investigatore ha a che fare con un delinquente che il legalismo garantisce immeritatamente. Lo spettatore, che sa che quello è davvero cattivo, freme d’impotenza assieme al detective. Ed ha un moto di sollievo quando quest’ultimo punisce il farabutto in modo adeguato e proporzionale a quel che ha fatto. Altro esempio cinematografico: la tortura è incivile, ma se un terrorista ha messo una bomba a tempo sotto un asilo infantile e non vuol dire dov’è, lo spettatore tifa per il poliziotto che, lontano dallo sguardo dei superiori, bypassa i diritti costituzionali. Sono esempi grossolani, certo, ma danno l’idea della differenza tra giustizia, sentimento innato (anche nei cattivi), e legalismo.

I cineasti americani lo sanno benissimo, e infatti il pubblico premia film come Il giustiziere della notte o L’ispettore Callaghan. Naturalmente gli Oscar non vanno mai a loro, bensì all’ennesimo film sul razzismo (dei soli negri, si badi, che a causa del politicamente corretto siamo tutti costretti a chiamare “neri”, ed è significativa la velocità con cui ci siamo adeguati a quest’altra americanata), perché Hollywood è infeudata ai liberals (negli Usa si chiamano così i marxisti, cosa che produce spesso effetti esilaranti nel doppiaggio italiano dei film, dove diventano “liberali”). È singolare, ma déjà vu, come i marxisti si sforzino di appropriarsi di termini come “liberale” e soprattutto “democratico”, tanto che le dittature rosse si riconoscono proprio dall’inserzione di questa parola nel loro logo, perfino la Corea del Nord.

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