Il parlamentarismo ha fallito. Questa Costituzione va cambiata

La riforma della Carta varata dal governo va nella giusta direzione. Ed è un’occasione da non perdere

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costituzione parlamento

Come sostiene il costituzionalista americano Bruce Ackerman, modificare una costituzione non è una operazione semplice in assenza di rivoluzioni o di guerre civili in quanto manca l’impulso proprio della fase supercostituzionale. Tuttavia, con il disegno di legge costituzionale n. 935 del novembre scorso, seguito, negli ultimi mesi, da successivi ed importanti emendamenti, si sta tentando di modificare la Parte Seconda della nostra Costituzione, relativa all’Ordinamento della Repubblica, prevedendo “l’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei Ministri, il rafforzamento della stabilità del Governo e l’abolizione della nomina dei senatori a vita da parte del Presidente della Repubblica”. Si tratta di un’operazione non semplice, ma sicuramente necessaria per la vita del nostro Paese.

L’importanza e la necessità di una tale riforma è sollecitata da una lampante situazione di decadenza istituzionale che, nel tempo, ha prodotto molteplici problematiche: basti pensare alla mancanza di stabilità dei Governi, al trasformismo parlamentare, per non parlare della disaffezione dei cittadini nei confronti della politica.

Il disegno di legge costituzionale Meloni-Casellati intende risolvere queste problematiche cercando di superare la centralità del Parlamento attraverso la valorizzazione dei ruoli e delle funzioni del Governo, da realizzare, in primo luogo, con l’introduzione dell’elezione diretta del Presidente del Consiglio da parte del corpo elettorale. In poche parole, un Governo che non sia più solo “Esecutivo” ma a cui sono riconosciuti autonomia ed indipendenza, che gli possano permettere di adottare scelte e decisioni autonome ma responsabili nei confronti dei cittadini che lo hanno legittimato.

La questione è piuttosto complessa in quanto le origini delle problematiche prodotte dal parlamentarismo provengono da lontano.

La storia, si sa, è magistra vitae, pertanto è fondamentale ricordare le basi della nostra forma di governo parlamentare, che affonda le proprie radici nello Stato liberale italiano postunitario. Questa forma di governo, non prevista dallo Statuto albertino, il quale contemplava solamente una monarchia costituzionale pura, risulta essere il prodotto della costituzione materiale, per dirla alla Mortati, ossia il risultato della prassi della politica dominante di fine Ottocento. Ma il parlamentarismo dello Stato liberale poteva essere giustificato dal fatto che la società dell’epoca era monoclasse e, quindi, omogenea, e la Camera rappresentava, pertanto, un corpo elettorale formato essenzialmente dal due per cento della popolazione. Successivamente, nel secondo dopoguerra, i nostri Padri Costituenti scelsero la forma di governo parlamentare, seppur razionalizzata, perché ritennero che la stessa avesse dato buona prova di sé fino all’avvento del fascismo e perché temevano un Governo forte, non esecutivo dell’organo legislativo, memori proprio del ventennio precedente.

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Il parlamentarismo, quindi, nasce liberale e non da un’angolatura prettamente democratica, come erroneamente molti ritengono. Differentemente da quella dello Stato liberale, la società del secondo dopoguerra è pluriclasse, ed è suddivisa in gruppi e classi con interessi, idee e pensieri diversi, che hanno prodotto, nel tempo, la degenerazione del parlamentarismo. Ne è prova la storia della nostra forma di governo parlamentare, dal 1948 ad oggi.

Inoltre, va evidenziato che l’evoluzione in senso degenerativo del parlamentarismo era stata ipotizzata anche da Carl Schmitt in “La condizione storico-spirituale dell’odierno parlamentarismo” pubblicata nel 1923, in cui il giurista e politologo tedesco ha teorizzato la perdita di fondamento delle discussioni parlamentari, che risulta essere, oggi, un tema di grande attualità.

La riforma Meloni-Casellati, dunque, intende superare le problematiche testé descritte, non cancellando la forma di governo parlamentare, ma super-razionalizzandola: è sempre previsto l’istituto della fiducia all’art. 94 della Costituzione per cui il Parlamento può far cessare l’attività del Governo in qualsiasi momento. Inoltre, a seguito di alcuni emendamenti, viene rafforzato anche il ruolo del Presidente della Repubblica il quale verrebbe eletto con la maggioranza assoluta dopo il sesto scrutinio (art. 83). Fondamentale è anche l’eliminazione della controfirma ministeriale, del tutto superflua, per alcuni atti presidenziali, basti pensare alla nomina del Presidente del Consiglio dei ministri – che diventa atto dovuto con l’elezione diretta dei cittadini -, così come sono dovuti il decreto d’indizione delle elezioni e dei referendum, rendendo, quest’ultimo, tra l’altro di più agevole utilizzo; mentre, rientrano tra gli atti personali – sempre non più soggetti alla controfirma – la nomina dei giudici della Corte costituzionale, la concessione della grazia – prevista come atto personale già dalla sentenza n. 200 del 2006 della Corte costituzionale -, la commutazione delle pene, i messaggi alle Camere ed il rinvio delle leggi. In poche parole, l’eliminazione della controfirma ministeriale potrebbe agevolare la dialettica istituzionale, oltre che snellire le procedure.

Altro grande punto di forza della riforma è la costituzionalizzazione del sistema elettorale. Infatti, la disciplina del “sistema per l’elezione delle Camere e del Presidente del Consiglio, assegnando un premio su base nazionale che garantisca una maggioranza dei seggi in ciascuna delle Camere alle liste e ai candidati collegati al Presidente del Consiglio, nel rispetto del principio di rappresentatività e di tutela delle minoranze linguistiche”, viene rinviata ad una legge ordinaria. In ogni caso il sistema elettorale dovrebbe essere il vero punto nevralgico dell’intera riforma, auspicando che la nuova legge ordinaria superi l’attuale rosatellum, attraverso la valorizzazione del rapporto fiduciario tra elettore ed eletto, il quale non deve essere calato dall’alto delle segreterie di partito, come avviene, invece, oggi.

In definitiva, bisogna prendere atto del fallimento del parlamentarismo classico, non più rispondente alle esigenze attuali, e questa riforma, che tende a super-razionalizzare la forma di governo parlamentare, appare un’occasione importante per il nostro Paese.

Giovanni Terrano, 3 giugno 2024

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