Parla il sociologo. Nella Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, mentre Impiegatello viene condannato e per Turetta chiesto l’ergastolo, non si fa che parlare del “patriarcato” origine di tutti i mali, ovviamente solo riguardo ai “maschi bianchi”. Ma a fare chiarezza in questo mondo di confusione c’è Luca Ricolfi che, tra un’intervista a PiazzaPulita e un articolo sul Messaggero ha messo bene in chiaro le cose e ha fatto notare che negare l’esistenza del patriarcato non è così grave come negare la Shoah.
“Siamo stati talmente martellati dalla tesi che la violenza sulle donne dipende dalla sopravvivenza del patriarcato che, per molti, negare il patriarcato suona come negare la violenza sulle donne – scrive il sociologo – Eppure, se lasciamo per un attimo gli ardori ideologici dei credenti nel patriarcato, e ci concediamo il minimo sindacale di lucidità, non possiamo non vedere le ottime ragioni dei negazionisti. Che sono tante e solidissime”.
Quali? Intanto va fatto presente che in Occidente, dunque pure in Italia, non vi sono più i tratti distintivi delle società patriarcali. E cioè “il potere dispotico del capofamiglia, il matrimonio combinato, la sottomissione dei figli (anche dei figli maschi) all’autorità genitoriale, più in generale il primato dei doveri sui diritti in quasi ogni campo della vita sociale (lavoro, famiglia, guerra)”. Certo anche noi in passato abbiamo avuto il patriarcato attivo. Ma dopo un processo di secoli, tra l’ascesa del matrimonio per amore e il ’68, ce ne siamo finalmente liberati. Infatti nella nostra società è scomparsa sia la figura del padre che quella dell’autorità. “Su questo, fra i sociologi, gli psicologi sociali e gli psicoanalisti sussistono ben pochi dubbi”: sarebbe sciocco parlare di “società patriarcale” quando “la figura del padre è scomparsa non solo nella famiglia, ma più in generale nella società”.
“La realtà – spiega Ricolfi – è che la nostra società è profondamente maschilista, o machista, o basata sul ‘dominio maschile’ (titolo di un importante libro di Bourdieu), a dispetto della scomparsa del patriarca, del padre, di ogni autorità. E anzi, l’ipotesi che dovremmo prendere seriamente in considerazione è che la violenza di cui le donne sono vittime sia semmai il risultato controintuitivo e paradossale della sconfitta del patriarcato”. Tradotto: le grandi conquiste di autonomia e libertà delle donne, il consumismo e l’aumento dei diritti hanno “reso gli esautorati maschi sempre più aggressivi, insicuri, fragili, possessivi, e in definitiva incapaci di reggere la minima sconfitta, o di accettare un semplice rifiuto”. Non volendosi fare da parte, i maschi potrebbero insomma aver reagito alle conquiste delle donne con “l’odierno maschilismo”: “La violenza maschile non sarebbe il segno della sopravvivenza del patriarcato, ma semmai della sua agonia, e del disordine che da quest’ultima deriva”. Per Ricolfi, inoltre, “se il maschio si rivela incapace di reggere un rifiuto, o non sa rinunciare a prendersi con la forza quello che vuole, è anche perché vive in una società nella quale sul piatto della bilancia il peso dei diritti è diventato incomparabilmente maggiore di quello dei doveri”.
Distinguere tra patriarcato e femminismo è fondamentale. Perché permetterebbe di andare a combattere il patriarcato dove “sopravvive davvero, e cioè nelle enclave religiose e culturali che, all’interno delle società occidentali, ospitano famiglie davvero patriarcali, come quella di Saman Abbas, che ha pagato con la vita il suo rifiuto di un matrimonio combinato“. “I dati del Ministero dell’interno sulle vittime di reati gravissimi, come la costrizione al matrimonio, lo stupro di gruppo, la violenza sessuale, il revenge porn, mostrano con grande nettezza che le ragazze straniere corrono rischi enormemente maggiori di quelli delle ragazze italiane – aggiunge Ricolfi sul Messaggero – Forse ci vorrebbe, accanto alla ultra-meritoria ‘Fondazione Giulia Cecchettin’, anche una “Fondazione Saman Abbas”, che aiuti le ragazze straniere oppresse a liberarsi dei rispettivi patriarchi, della cui nefasta influenza si possono trovare indizi anche nelle scuole, ad esempio ogniqualvolta il tasso di partecipazione ad attività sociali delle ragazze straniere è sensibilmente inferiore a quello delle ragazze italiane”.
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