Un trio delle meraviglie composto da Zingaretti, Conte e Bonafede – il Buono, il Bello e il Cattivo – si è appena formato con la missione di ibernare la politica italiana fino al 2023 e riconfermare Sergio Mattarella al Quirinale, in costanza dell’attuale non rappresentativo Parlamento e del taglio del numero di Deputati e Senatori. Un disegno che trova nel Segretario generale della Presidenza della Repubblica, Ugo Zampetti, il suo massimo cantore. Di certo si scontra con le ambizioni ormai smisurate di Giuseppi che, fosse per lui, punterebbe persino al dopo Bergoglio, alleandosi, se necessario, addirittura con il Dalai Lama dopo gli ultimi happening tra francescani e gesuiti.
Ma sia Mattarella che Conte sanno che l’unico candidato temibile è Mario Draghi e sperano entrambi che quest’ultimo, spenti i riflettori della Bce, adesso entri in un cono d’ombra, cedendo ai corteggiamenti di JP Morgan, con un ingaggio, pare, stellare, dopo aver fatto persino pace con i tedeschi e non essendo sicuramente smanioso di impantanarsi in vicende italiane. Sergio Mattarella ha capito che questo governo giustizialista e manettaro, sconfessato sulla prescrizione perfino dal Procuratore Generale di Milano che l’ha bollata di incostituzionalità, sta creando solo guai. Del resto, da quando Conte è a capo del governo, con uno storico come Gualtieri al MEF, i dati di finanza pubblica sono colati a picco, essendo persino riuscito a portare il Pil sotto lo zero, mentre prima di lui l’Italia ancora cresceva dell’1,7%.
Con questi due ultimi Esecutivi sono aumentati solo il debito e la spesa pubblica per consumi intermedi e per personale della Pubblica amministrazione, divenuta ormai un ammortizzatore sociale. Una spirale negativa innescata dalla cultura anti-impresa dei grillini, sposata dall’ex avvocato del popolo, che oggi solo una drastica riduzione delle tasse potrebbe fermare. Ma qui subentra il Partito democratico, che invece ha la fissa di aumentare le imposte, e che, anziché guardare al centro per conquistare il voto dei moderati, si sta spingendo sempre più a sinistra, a caccia di sardine e centri sociali.
A questa sinistra che si è messa il distintivo dello sceriffo sul petto, si contrappongono un Matteo Renzi in modalità stand-by, ancora indeciso in quale campo da gioco andare a fare il disturbatore, un Luigi Di Maio, pronto ad una diaspora interna verso il centro, ed una destra disorientata, nonostante i voti presi in Emilia-Romagna e, soprattutto, in Calabria. Il voto in Emilia ha confermato che il centrodestra non riesce a vincere nelle grandi città. In questi anni, Salvini ha infatti ragionato solo da capo partito, puntando a cannibalizzare la sua coalizione, a scapito del messaggio di unità e di forza, dimenticando di attrarre quei corpi intermedi moderati che avrebbero peraltro potuto rappresentare la fucina di una classe dirigente. Da Firenze in giù non ci sono i Zaia, i Fontana, i Giorgetti, i Molinari, ma figure non in grado di competere con un centrosinistra in formato ZTL.
In tutto questo, Giorgetti, fresco di nomina a responsabile esteri del Carroccio, non sta pensando a Palazzo Chigi bensì, spinto dalla classe di governo del nord della Lega e da una parte di Forza Italia, a creare una forza moderata di centro che, lungi dallo scimmiottare lo scudo crociato, interpreti quei valori liberali e riformatori che Salvini non può, da solo, impersonare. E, in queste ore, l’ex sottosegretario sta proprio facendo una mappatura di quei consiglieri comunali e regionali eletti un po’ in tutta Italia nelle liste civiche, con cui portare avanti questo progetto. Tornando, insomma, a comporre quel centrodestra a quattro gambe di berlusconiana memoria.
Sempre che Giorgetti, l’esponente più dialogante della Lega, molto ben visto nei Sacri Palazzi anche come frequentatore assiduo della messa mattutina di monsignor Andreatta in Piazza della Pigna, riesca a domare la Bestia e i protagonismi dei singoli. Chissà che non sia questa la volta buona.
Luigi Bisignani per Il Tempo 2 febbraio 2020