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Il pensiero unico che nega destra e sinistra

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Capita spesso di leggere articoli che intonano il de profundis per la più antica coppia nemica della modernità politica: destra e sinistra. “Destra e sinistra – ha scritto il filosofo del diritto Paolo Becchi su Libero il 2 febbraio scorso – nuotano ormai nello stesso brodo culturale. La sinistra ha abbandonato la lotta di classe, la difesa della classe operaia oppressa dal modo di produzione capitalistico e la destra la battaglia per la difesa della comunità e della tradizione: entrambe in fondo hanno accettato la cultura dell’individualismo libertario sciolto da legami sociali e comunitari. A destra non si discute la competizione sul mercato globale e a sinistra si insiste sulla emancipazione non dei lavoratori ma dalle radici. L’unica libertà che conta è quella delle merci, dei capitali e degli individui”.

Becchi sintetizza in poche, chiare, righe un leitmotiv ormai quasi secolare anche se le spiegazioni del tramonto delle due categorie politiche variano col tempo, con gli uomini, con i partiti. Mutano anche gli atteggiamenti con i quali si prende atto della presunta irrilevanza di destra e sinistra. Per alcuni il loro declino è la liberazione da fantasmi di epoche passate, per altri è il segno della crisi spirituale della nostra epoca che ha azzerato tutti i valori, tutti gli ideali per i quali gli uomini erano disposti a battersi e a rischiare la vita. Ho l’impressione, tuttavia, che nelle relazioni ufficiali dell’avvenuto decesso si celi una pericolosa incomprensione. Quella di credere che “destra” e “sinistra” non hanno nulla di “sostanziale” in quanto legate al mondo della “superstizione politica” (che genera i fantasmi, appunto) o a stili di pensiero che, da rimpiangere o meno, sono relegati nel “mondo di ieri”.

Sennonché sia negli individui che nelle società si trovano elementi strutturali che possono appannarsi, venir dimenticati per anni, trascurati più o meno consapevolmente ma che, nondimeno, riemergono prima o poi: e spesso con una virulenza proporzionale alla sottovalutazione. Il bisogno di comunità, il senso della tradizione che caratterizza la destra – e che trova il suo simbolo privilegiato nell’albero che affonda le sue radici sul terreno della storia – è qualcosa di insopprimibile, come la proiezione verso il futuro, la volontà di emanciparsi dal peso di usi e costumi che incatenano gli individui al suolo, alla famiglia, al milieu religioso. Che ha il suo simbolo, invece, nell’atto di spezzare le catene del privilegio.

La grandezza dell’Occidente, a ben riflettere, è consistita nella capacità di tenere in equilibrio le due dimensioni, “l’unico e l’universale”, per riprendere un saggio del grande Jacob L. Talmon, la “comunità di destino” e la “società degli individui”, il romanticismo politico e l’illuminismo, banditore dell’universalismo etico. Oggi sembra vincente la delegittimazione etica di tutto ciò che sa di particolare, di difesa del “sangue” e del “suolo”, di richiamo all’identità. A guardar bene, è l’ideologia di grandi quotidiani come la Repubblica o di periodici di nicchia come Il Foglio.

Ed è quella che, per reazione, risuscita istinti tribali di difesa che ai livelli alti ispirano una saggistica sempre più lontana da quel “pensiero unico” che lega ormai l’Istituto Bruno Leoni agli eredi del comunismo e dell’azionismo in nome della demonizzazione dello Stato nazionale e delle sue logiche.

Quasi in retromarcia, Paolo Becchi conclude l’articolo scrivendo che “la distinzione politica fondamentale oggi” è “quella tra coloro che difendono il globalismo, l’universalismo astratto e coloro che lo criticano in nome di particolarità concrete”.

Ma non è questa la forma che oggi assume la dialettica tra ‘”destra” e “sinistra”? Becchi, che col suo “sovranismo mite” sta dalla parte dei no global, ritiene che nulla vieta di pensare a un progetto politico in cui “potrebbero coesistere idee come quella di comunità, di appartenenza, identità, lealtà, senso dello Stato, con altre idee che riguardano la giustizia sociale, la solidarietà e la redistribuzione”.

Senza avvedersene, però, rivela la stessa forma mentis del mainstream progressista che, nel suo culto della globalizzazione, rassicura i timorosi che non hanno niente da temere, che far parte di società politiche sempre più vaste, non rappresenta affatto una minaccia per le comunità storiche ma, anzi, è un modo per preservarle da altre guerre distruttive, dagli odi etnici, dalla barbarie tribale.

Ma è proprio vero che le cose buone stanno sempre insieme e che esistono formule magiche in grado di salvare capre e cavoli, libertà ed eguaglianza, solidarietà e individualismo, difesa dei confini ed apertura a chi vuole entrare, ragion di Stato e limitazione della sovranità etc. etc.?

È così difficile (a destra e a sinistra) rassegnarsi al fatto che ogni famiglia ideologica, ogni partito, porta nel mercato della politica i suoi prodotti specifici? E che a dividerci non sono tanto i valori ma la priorità che diamo a quello che ci sta più a cuore quando non è possibile, ad esempio, salvaguardarli tutti: tutelare, ad esempio, la libertà senza sacrificare un po’ di eguaglianza; sostenere l’autorità dello Stato senza limitare i diritti degli individui?

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