Matteo Salvini ha un piano, e questa non è una notizia, è un’ovvietà. Qualunque politico degno di tal nome dovrebbe averne uno (che un tizio il quale ha preso la Lega al 3% e l’ha portata ad essere primo partito italiano non rientri nel novero, non lo pensano ormai nemmeno gli antisalviniani di professione). Qui però intendiamo un piano strategico di prospettiva, non un piano tattico di giornata, ed anche questa non è una notizia, è un’ipotesi di lavoro. Che poggia, ci sembra, su elementi solidi di realtà.
Primo atto: la marcia coordinata con Berlusconi, cioè molto più che con Forza Italia, con l’eredità politica del berlusconismo. Qualcuno la descrive col vecchio progetto della Lega Italia, qualcun altro evoca l’idea di una federazione di tutto il mondo moderato-liberale-produttivista che non sia la destra della Meloni, qualcun altro ancora indica un’agenda più graduale, tappa per tappa, magari iniziando da una forte sinergia dei gruppi parlamentari. Tutto ciò, in effetti, è retroscenismo di Palazzo. La ciccia rimane invariata, e più o meno suona: Salvini e la Lega giocano a tutto campo, immaginando un aggiornamento contemporaneo di quello che provarono ad essere il PdL e Forza Italia nella sua stagione migliore. Un contenitore largo, plurale e polifonico, edificato su alcuni valori comuni. L’impresa e non il sussidio. La persona e non lo Stato. Lo sviluppo e non la decrescita. Il lavoro e non l’ideologia. Una definizione la diede lo stesso segretario leghista annunciando l’entrata al governo: “Il partito di Draghi è il partito del Pil”.
Secondo atto: ieri, dal Portogallo, Salvini è arrivato a prefigurare una sorta di “partito del Pil” che sconfini al di là delle Alpi. “Il mio obiettivo, per creare davvero un’Europa fondata sul lavoro, sui diritti, sulla famiglia e sulla partecipazione, è creare un gruppo, forte e unito, che metta insieme le forze migliori dei tre attuali gruppi di centrodestra, alternativi alla sinistra (anche estrema) che fino ad oggi ha dettato legge al Parlamento europeo”. Il cartello antitetico ai compagni dovrebbe comprendere Identità e Democrazia (dove ci sono la stessa Lega e il Rassemblement National di Marine Le Pen), i Conservatori e Riformisti Europei (con i polacchi, gli spagnoli di Vox e soprattutto Giorgia Meloni presidente) e perfino il Ppe dominato dal centrismo post-merkeliano. Possono esserci fusionismo prematuro e retropensiero utile alla contesa tutta interna con la leader di Fratelli d’Italia, nella proposta di Salvini? Sì. Si tratta comunque di un sasso nello stagno della liturgia europea, che replica stancamente da anni il dominio dei vecchi partiti dell’establishment, ormai palesemente scissi dalle vite dei popoli del continente, specie nel bel mezzo della vera pandemia, quella economica? Sì.
Incrociando tutti i sentieri che sta battendo il Capitano, si arriva a un luogo della politica e dell’immaginario che sembrava passato di moda. La “maggioranza silenziosa”, nientemeno. Quell’agglomerato che fa inorridire i salotti buoni(sti), sudaticcio, volgare, che ha il vizio di alzare la serranda la mattina e il pensiero gretto di migliorare le condizioni di vita proprie e dei propri figli, che osa coltivare come priorità il proprio fatturato e lo stipendio dei propri dipendenti piuttosto che il Ddl Zan (e non si fa convincere nemmeno da Fedez!), che traduce la “sostenibilità per le prossime generazioni” nel lascito di qualcosa che assomigli ancora a un tessuto produttivo, piuttosto che alle ossessioni apocalittiche di un’adolescente svedese sul riscaldamento globale.