Enrico Letta, che ha scatenato una guerra fra donne nel Pd, ha in testa un solo uomo: Romano Prodi. Il nuovo che avanza. Il segretario, assunti i panni di un supereroe della Marvel, dopo la finta rivoluzione di genere, ha nostalgia del passato.
Piano diabolico
Si propone, infatti, di rispolverare il vecchio progetto maggioritario dell’Ulivo infilando una verniciata di quel che resterà dei grillini a guida Conte. La mission impossible del supereroe Letta è riuscire a piazzare il pacioso Mortadella al Quirinale per poi puntare lui stesso a Palazzo Chigi. Altrimenti perché mai avrebbe mollato il ritiro dorato di Parigi. Per realizzare questo piano diabolico, ha già individuato il prossimo obiettivo: rendere difficile il percorso verso il Colle del suo amico Mario Draghi il cui governo appare ancora disorientato. Ben vengano, quindi, agli occhi di Letta, le critiche della Lega di Salvini all’esecutivo, che si sposano con l’assenza di iniziativa dei ministri piddini (Franceschini, Guerini e Orlando). Non un’idea intelligente da parte loro sulle chiusure e sui relativi sostegni, per non parlare della rivoluzione digitale affidata a Colao e Cingolani, che girano a vuoto. Forse anche per il fatto che Draghi sembra non prestare loro alcun tipo di attenzione e per il modo sbrigativo del Premier di regolare i rapporti con i colleghi, a partire dallo spaesato responsabile del Mef, Daniele Franco.
Pd, partito ostaggio delle correnti
Quanto al Pd i primi giorni del “nuovo” corso trascorrono all’insegna della miglior retorica piddina. Con i numeri del virus e dell’economia che urlano vendetta, Letta prosegue con i soliti argomenti, dall’omofobia allo ius soli al voto ai sedicenni, mentre impazzano le correnti che hanno ripreso il potere assoluto nei confronti di un segretario che vuole comandare ma non sa farlo perché per sua natura è più uomo delle istituzioni che degli apparati. Nelle Baruffe chiozzotte alla Goldoni sull’elezione delle due capogruppo donne, il mantra di Letta: dopo averle sollecitate, se le è viste apparecchiate senza poter toccare palla, con drammi personali che si porteranno dietro una scia di veleni e di gossip, argomento principe nei conciliaboli notturni della dirigenza ex comunista. A partire dalla grande sconfitta, Marianna Madia, quella dello slogan “porto in dote la mia straordinaria inesperienza” che ha fatto l’intera carriera all’ombra dell’uomo di turno (da Veltroni a Letta, da D’Alema a Napolitano jr fino a Renzi), perfino nel passaggio in Rai, con l’autore più illuminato, Giovanni Minoli, dove ottenne subito un programma, o nel cinema, dove partecipò con un cameo nel film Pazze di me. Così come Debora Serracchiani, discutibile governatrice del Friuli, voluta da un capolavoro di palazzo tra Franceschini, Delrio e l’astutissimo Lotti, che ha impreziosito l’operazione ottenendo la vicepresidenza per il figlio di Vincenzo De Luca. Un partito, dunque, sempre più in balìa delle correnti, all’inseguimento dei grillini, con un segretario che però può contare sul Quirinale come ‘asso nella manica’.
Mattarella, il quale ha perfidamente guidato i giochini all’interno del Pd di Zingaretti, fino all’ultimo tenterà di farsi pregare per rimanere ma, se proprio dovesse decidere di farsi da parte, non disdegna l’idea di Romano Prodi con il ritorno del clan dei bolognesi. E per preparare il campo di battaglia sarebbe buono se in Rai, come Ad, venisse riparacadutata Tinny Andreatta, figlia dell’amatissimo Beniamino. Del resto, mamma Rai è sempre stata per le donne una riserva rosa. Basta leggere i nomi a seconda delle stagioni come nelle serie TV: è stata la volta delle mogli, delle figlie, delle amiche. Ed ora, anche dei nuovi generi che, giustamente, lottano per avere le loro quote.