Il 6 giugno 1927 nasceva Sergio Ricossa che oggi, se fosse ancora con noi, avrebbe dunque 96 anni (ci ha lasciati nel 2016). In questa Italia distratta, pochissimi lo ricordano. Proprio oggi che assistiamo ad una grande confusione sul fronte “liberale”, sarebbe stata utile ancora una volta la sua voce. Lui grande economista liberista e del buon senso, tenne alta la bandiera della cultura liberale anche in periodi in cui farlo significava essere isolati e persino correre dei rischi.
Ebbe più allievi di quanti lui stesso potesse credere, che in lui videro una guida dalla specchiata statura intellettuale e morale, dallo stile elegante; grande scrittore caratterizzato da una prosa sempre limpida e chiara. Molto amato da chi lo conobbe e studiò la sua opera, ma omaggiato sempre con distacco da un “mondo della cultura” da cui era visto come eterno outsider.
Ricossa è stato paladino della vitalità e della mentalità borghese, avvezza all’iniziativa, al cambiamento e al rischio che spesso comporta la scoperta di nuovi orizzonti. In questo, differenziandosi dalla mentalità aristocratica basata sulla ricerca di rendite e di certezze, o dalla visione socialista, incline al tentativo di programmare tutto sotto il controllo centralizzato dello Stato, ricercando una idilliaca sicurezza nella povertà piuttosto che sviluppare l’iniziativa privata nella continua mutazione creativa del mondo capitalistico.
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Il grande pericolo sempre in agguato è la tentazione di considerare lo Stato come il grande benefattore, una entità concreta e buona che pensa solo al bene dei “’propri figli”: “Qui da noi lo “stato” si scrive con la S maiuscola e si finge di considerarlo una divinità. Ignorando che è una mera finzione giuridica. Lo stato sarebbe nulla senza gli uomini politici che lo animano, e costoro non sono superuomini. Sono uomini come gli altri, ma più pericolosi perché dotati di più potere, fra cui il potere fiscale di portar via e usare il denaro degli altri, a palate”. (Sergio Ricossa – Da liberale a libertario – Leonardo Facco Editore 1999).
Politici e funzionari che dovrebbero agire per il bene comune, pagati per essere al servizio dei cittadini, non il contrario: “Lo fanno, dicono, per il “bene comune”. Però l’unica definizione di bene comune e di interesse generale è tautologica: è quel che fanno i politici al potere, qualunque cosa facciano, compreso il rubare ai poveri per regalare ai ricchi. Se li eleggiamo si vantano di “rappresentare il popolo”, altro esempio di linguaggio ingannatore. Il popolo di cui parlano è quello dei loro clienti conniventi, che partecipano alla spartizione del bottino”. [Ibid}
Anche per questi motivi Ricossa maturò una crescente sfiducia nei partiti e negli apparati pubblici, avvicinandosi sempre di più alle posizioni libertarie, di cui parleremo nelle prossime pillole.
Fabrizio Bonali, 5 luglio 2023