Ripassiamo insieme le date del calendario. Due giorni fa era sabato, ieri, ovviamente, domenica. Oggi è Sant’Ambrogio, festività di Milano. Domani è la Festa dell’Immacolata. E finalmente mercoledì è il giorno dello sciopero del pubblico impiego. Solo in un Paese che ha perso il senso della realtà si può permettere ai sindacati del pubblico impiego di indire uno sciopero così congegnato e collocato.
Qui non si tratta di offendere il diritto all’astensione dal lavoro, qui si tratta di ragionare. Il pubblico impiego in Italia non è particolarmente ben pagato. È poco attrattivo. E, in questo momento, come direbbe il giornale unico del virus riferendosi ai cenoni, è «lunare» pensare che un pubblico dipendente scioperi per il rinnovo di un contratto, che comunque ha e che, soprattutto, garantisce uno stipendio a vita, nessuna cassa integrazione e la non licenziabilità. Le autorità possono, per legge, impedire uno sciopero in tempi di festa. Ebbene, non hanno il coraggio di farlo in tempi che loro stessi definiscono di emergenza, che è ben peggio di una festa.
Immagino che molti dipendenti pubblici, quelli che lavorano, se ne infischieranno di quello che decidono i loro sindacati. E immagino che anche noi contribuenti soffriremo meno, posto che da marzo la pubblica amministrazione funziona a singhiozzo. Ma il paradosso è che il ministro competente, che non pretendiamo si vesta da Reagan, scriva una lettera aperta, dicendo che ha intenzione di migliorare il già ottenuto incremento salariale dei nostri travet. Questo è veramente troppo.
Il più grande datore di lavoro in Italia, cioè la pubblica amministrazione e cioè noi cittadini, ha deciso (sic) di aumentare nel 2021 del 4 per cento gli stipendi, prendendo 3,7 miliardi dalle nostre tasche per spostarli in quelle di tre milioni di dipendenti pubblici. E, non soddisfatti, i loro rappresentanti indicono lo sciopero, il ministro Fabiana Dadone decide di rendere strutturale un aumento di 20 euro (previsto nel 2018) per tutti e per sempre. Non per chi sta lavorando in questo momento; no, per tutti.