Pubblichiamo la seconda puntata del reportage in Albania a cura di Francesco Giubilei. Nella prima puntata è stato raccontato il rischio di una massiccia emigrazione verso l’Italia da parte del popolo albanese, in questa seconda parte viene affrontato il tema della criminalità organizzata albanese.
Lubonja afferma che l’Albania sia diventata un narcostato e non è l’unico, lo dice senza giri di parole anche Sali Berisha, Presidente della Repubblica dal 1992 al 1997 e Primo ministro dal 2005 al 2013. In effetti, leggendo le cronache dei giornali italiani degli ultimi mesi, siamo di fronte a un bollettino di guerra: Lecce, 12 febbraio “Arrestati dalla Guardia di Finanza 27 narcotrafficanti tra Italia e Albania”; Messina, 1 aprile “Scoperto traffico di droga tra Italia e Albania: in 9 finiscono in manette”; Bologna, 23 luglio “Narcotraffico dall’Albania: arresti a raffica e oltre 117 kg di droga sotto sequestro”.
L’Italia contrasta attivamente l’operato della criminalità organizzata grazie a un accordo con l’Albania che consente all’aereo antidroga della Guardia di Finanza di sorvolare il territorio albanese per ricercare e mappare le piantagioni di marijuana ma, a giudicare dai numeri impressionanti di coltivazioni che fanno dell’Albania “il più grande produttore di cannabis cresciuta all’aperto in Europa”, come scrive la BBC, senza un’opposizione sistematica delle autorità locali, i risultati sono limitati. Sebbene Rama abbia ricevuto il plauso internazionale per aver smantellato nel 2014 le coltivazioni nel paese simbolo di Lazarat, dove si producevano 900 tonnellate di cannabis l’anno per un valore di 4,5 miliardi di euro, le misure di contrasto alla produzione di cannabis nel resto dell’Albania appaiono insufficienti.
I rapporti tra la politica e il narcotraffico sono emersi in tutta la loro gravità dopo alcune intercettazioni pubblicate dal quotidiano tedesco Bild che hanno fatto il giro del mondo suscitando enorme scalpore in Albania. Uno dei casi più eclatanti è quello di Saimir Tahiri, ex Ministro dell’Interno del governo Rama fino al 2017 quando, a causa di un’operazione della Guardia di Finanza di Catania, viene arrestato un gruppo di trafficanti albanesi tra cui Moisi Habilaj, cugino di Tahiri. Nell’indagine della Guardia di Finanza compare anche il nome di Tahiri di cui viene chiesto l’arresto in Albania ma il parlamento nega l’autorizzazione a procedere. Nel frattempo Tahiri si dimette da ministro e prende il suo posto Fatmir Xhafaj, fratello di Agron Xhafaj, condannato in Italia per traffico di droga a sette anni e, a causa di un nuovo scandalo, anche lui è costretto a dimettersi lasciando il posto all’ex generale dell’esercito albanese Sander Lleshi.
Il dibattito politico e mediatico albanese è fortemente influenzato da ciò che si scrive o dice dell’Albania sui media esteri. Chi ha avuto un ruolo centrale nell’avvio dell’inchiesta sul narcotraffico è il giornalista investigativo Basir Çollaku, direttore delle news di Shijak Tv, una delle più importanti emittenti private albanesi. Lo incontriamo in un ristorante tipico nel centro di Tirana e, tra un piatto di Fërgesë (peperoni rossi, pomodori pelati, cipolle cotte con ricotta e spezie) e di Tasqebap (una specie di spezzatino), Çollaku ci racconta l’organizzazione del narcotraffico in Albania: “qui agiscono decine di clan che operano in modo analogo alla criminalità organizzata in Italia”.
Ci vuole molto coraggio a denunciare pubblicamente le logiche e le dinamiche del sistema albanese, non è facile compiere liberamente il lavoro di giornalista investigativo senza subire pressioni e ritorsioni, Çollaku infatti ci dice di aver ricevuto varie intimidazioni che ha denunciato alle autorità, mentre un paio di mesi fa alcune persone sono state viste mentre filmavano casa sua: “per comprendere il clima che viviamo in Albania è importante conoscere la storia di Dritan Zagani, un ex funzionario di polizia che ha ricevuto l’asilo politico dalla Svizzera dopo aver trascorso vari mesi in carcere per aver denunciato la collusione tra il governo e i narcotrafficanti”.