Chi di politicamente corretto ferisce, di politicamente corretto perisce. È la storia di Christine J. Ko, professoressa alla Yale University, autrice di un libro ispirato alla storia di suo figlio non udente. Il suo romanzo parla delle vicissitudini di un ragazzino sordo, e durante il processo di pubblicazione la mamma scrittrice si è definita “felice” di sottoporre il suo scritto ad un “sensitivity reader”, cioè un “lettore sensibile”, uno di quegli individui specializzati nel controllare che un libro non ferisca i sentimenti altrui.
Verdetto: il libro non va bene, una persona che ci sente non può scrivere la storia di un sordo. Piuttosto che rispondere con un patriarcale gesto dell’ombrello, la madre si fa convincere dall’editore a riscrivere il romanzo rigo per rigo insieme al figlioletto, e un po’ faticosamente il manoscritto è pronto. Risultato: non va bene ancora. Il lettore sensibile è implacabile: aver costretto il figlio dodicenne a scrivere il libro con la madre è una forma di “coercizione”. Ma ora Madre Coraggio se ne frega del pippone di un* tizi* che non ha mai visto in vita sua (solo comunicazioni tramite terzi, la privacy impone che l’identità del sensitivity reader resti sconosciuta, così si ha l’impressione di parlare con Dio) e ad un mese dalla pubblicazione si sente spaventata. Teme il giudizio del pubblico: “Se anche loro proveranno quello che ha sentito il sensitivity reader?”. Perché il sensitivity reader le ha detto chiaramente che un libro del genere è, udite udite, “pericoloso”.
Forse hanno ragione loro. Forse hanno ragione quelli che dicono che Homer Simpson non deve strozzare Bart. Forse ha ragione la casa editrice di Roald Dahl che pubblica i romanzi “epurati” da parole offensive. E allora affidiamoci anche noi al sensitivity reader, nei paesi anglosassoni ci sono diverse agenzie che forniscono questo servizio, come “Writing Diversely” o “Salt and Sage Books”, dove addirittura possiamo scegliere il censore che meglio ci aggrada in base al curriculum migliore.
Potremmo fare giudicare il nostro romanzo a Gabriel Yuriria, le cui credenziali sono: “Bisessuale genderfluid, messicano dalla pelle chiara, con disturbi dell’apprendimento autodiagnosticati, depresso, ansioso”. Ora, massimo rispetto per le disgrazie di costui, ma ha fatto almeno le scuole superiori? Ce l’ha una mezza laurea? Anche solo in scienze del femminismo? I lettori sensibili a cui sottoporre le nostre opere sono organizzati in elenchi dettagliati, e forse la signora Kashinda Carter può fare il caso nostro: “Donna nera, con un occhio solo, moglie di un veterano disabile, matrimonio multietnico (il marito è bianco), soffre di asma, ha fatto operazioni chirurgiche per perdere peso”.
Sembra uno scherzo, ma una verità spaventosa viene a galla. Secondo i seguaci della religione del politicamente corretto (sono milioni, ovunque in torno a noi), non hanno importanza competenze e titoli di studio, ma la croce che ci si porta dietro per far sentire in colpa gli altri. E quindi un curriculum non deve più essere il racconto dei traguardi della vita, ma il mero elenco delle proprie sfighe. Perché solo autocommiserandosi si può ottenere la patente per giudicare l’universo mondo.
Tramontati Montanelli e Pasolini, i buoni sono ben felici che la storia li abbia sostituiti con personaggi puri, più adatti a giudicare l’operato altrui, come il signor Rue Dickey: “Transessuale, queer, indigeno e romanì, con disturbi di ansia e praticante stregone”. E qui siamo oltre il Boldrinismo, oltre il Savianesimo. Qui siamo all’ufologo rettiliano della Zanzara che diventa ministro dell’istruzione.
Ciò che scandalizza è che coloro che assecondano questo obbrobrio autolesionistico siano persone di alto livello socio-culturale, vedi la docente di Yale, vedi la professor* della Normale di Pisa preoccupat* per la guerra a Gaza. Chissà quando ci accorgeremo che questa cultura del piagnisteo è uno dei principali motori del nostro declino. Nel frattempo, che tu sia un lettore sensibile sconosciuto o un Di Battista in prima serata la filosofia per stare dalla parte giusta è sempre la stessa: piangiti addosso e dicci che facciamo schifo.
Pietro Molteni, 9 novembre 2023