Ieri era il trentesimo anniversario della fine del lungo governo di Margaret Thatcher. La Lady di ferro (Iron lady) , come era stata soprannominata, aveva accompagnato tutti gli anni Ottanta (si era insediata a Downing Street nel maggio del 1979) e aveva cambiato completamente il volto a una nazione che, quando l’aveva presa in carico, era prostrata da scioperi, in pieno declino economico e industriale (superata persino dall’Italia), con i cittadini in profonda crisi esistenziale e di identità.
In un decennio, ella aveva rivoltato il Paese, sfidando tutti e tutto, come un calzino. E la stessa Cool Britannia di Tony Blair, e la Londra vitale e dai mille colori che negli anni Novanta imparammo tutti a conoscere ed amare, in tanto potettero esistere, in quanto, per comune ammissione degli storici, avevano ereditato tutto il lavoro “sporco”, cioè l’opera di risanamento, fatto in precedenza da questa grande statista. Thatcher è stata il primo ministro che ha governato più a lungo in tutta la storia della Gran Bretagna, e la prima donna a ricoprire quel ruolo. Ce ne sarebbe a iosa perché le femministe, o semplicemente l’opinione comune che fa della “disparità di genere”, così “a prescindere”, cioè indipendentemente da meriti e competenze specifiche, il proprio mantra, la esaltasse come un esempio della forza e del carattere che può avere una donna e dove può arrivare. E invece…niente!
La grande Margaret ancora oggi viene trattata con un misto di indifferenza e diffidenza, a cominciare dalle stesse donne; e dell’anniversario di ieri, a parte Il Giornale che vi ha dedicato due belle pagine, nessuno mi sembra che se ne sia occupato. Potremmo quasi dire, celiando, che il trattamento riservato alla Thatcher, in questa come in altre occasioni, è un esempio di sessismo bello e buono. Si tratta di una discriminazione tanto più incomprensibile quanto più si ripercorre la biografia di una donna che si è fatta da sola: che ha “rotto il soffitto di cristallo”, come dice la retorica vincente, sfidando ogni tipo di difficoltà, a partire da quelle legate alle sue umili origini e alla diffidenza che suscitava in una Università di Oxford (che frequentava con borse di studio) allora rigidamente classista.