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Il sovranismo di Craxi rivisto da Hammamet

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L’Italia riconosce i suoi figli migliori da morti, verrebbe voglia di dire. A Bettino Craxi, che si staglia nella storia politica del Novecento, è toccata più che ad altri questa amara sorte. Più passano gli anni e più le persone che si accalcano attorno alla sua tomba il 19 gennaio, anniversario della scomparsa, crescono in numero. Quest’anno erano in mille, come i suoi garibaldini, e non erano affatto solo “reduci” nostalgici come pure i media mainstream si sono già apprestati a dirvi. C’erano tutte le tv e i giornali principali, c’erano tanti giovani, c’erano gli amici tunisini di colui che per loro è rimasto “monsieur le Président”, umano e carismatico insieme.

D’altronde “maison Craxi” è per gli abitanti del posto l’indirizzo privato più conosciuto: tutti sanno dov’è e anche al taxista, per arrivarci, non occorre che dici altro altro. Una casa dei sogni, ove il politico “corrotto e corruttore” ha trascorso fra lussi e sfarzi la vita dorata da “latitante”? Manco per sogno! Una normale villa di vacanza comprata negli anni in cui la borghesia milanese prendeva la seconda casa in Sardegna e poi anche lungo la costa mediterranea dell’Africa. Un “luogo dell’anima” che il Craxi non ancora ai vertici del potere aveva scelto forse non a caso.

La sua visione del ruolo dell’Italia nel mondo era infatti ben chiara: saldamente ancorati all’Alleanza atlantica, per motivi ideali e politici insieme, avremmo però dovuto esercitare la nostra influenza di media potenza nel bacino di mare a noi prospiciente, nel Mediterraneo, spingendoci giù fino alla Somalia e alle terre che un tempo avevamo fatto nostre colonie. Un Paese veramente democratico e amico dei popoli poveri o che lottavano contro le dittature (e spesso, allora come oggi, le due cose coincidevano). Alleati fedeli degli Stati Uniti, ma fieri altresì della nostra sovranità, pronti a difenderla con le unghie come il caso Sigonella avrebbe dimostrato ampiamente e tragicamente.

Sovranismo vero e non “alle vongole”, per dirla tutta. Tanto che Ronald Reagan gliene dette atto, quando più non era Presidente: mai un leader italiano aveva dimostrato di avere gli attributi, cioè, fuor di metafora, di essere fcosì fermo e poco accondiscendente sui principi ultimi, amico ma non vassallo. Quella accondiscendenza da servi che Craxi notò subito nel nostro atteggiamento nei confronti dell’Unione Europea, chiedendo a gran voce, Cassandra non ascoltata sull’Euro, la revisione di quei trattati di Maastricht che alla fine ci avrebbero stritolato. Allora la nostra economia invece correva: riuscimmo a sorpassare persino la Gran Bretagna diventando il quinto Paese più industrializzato del mondo. La “Milano da bere” non era altro che la Milano che produceva e vendeva i suoi prodotti e il suo stile di vita in tutto il mondo. Dopo i bui anni di “piombo”, il “riflusso” rappresentò quella giusta carica di vitalismo ed innovazione che fece del nostro Paese un modello. Si viveva bene, felici, si guardava senza paura al futuro.

D’altronde, se non questo cosa altro poteva essere il progressismo di cui parlavano i partiti di sinistra? E uomo di sinistra, anzi socialista, Craxi lo era fin al midollo, ma nel senso ottocentesco del termine: umanitaristico, libertario, mutualistico e solidaristico. Non era anticapitalista, tutto il contrario, ma riteneva che comunque alla politica toccasse un primato di controllo e indirizzo sul mercato e su ogni tipo di forza sovrapersonale. Mentre Enrico Berlinguer si baloccava a parlare di “austerità” e “terza via” fra capitalismo e socialismo, Craxi fu sempre fermo nell’affermare che tertium non datur. E cioè che l’economia capitalistica è la sola che genera ricchezza e si lega naturaliter al più alto dei valori umani: la libertà. Il comunismo su questo punto fondamentale aveva tragicamente fallito. E fallito avevano anche i socialisti italiani nel farsi succubi in Patria del più grande partito comunista dell’Occidente. In nome dell’“autonomia socialista”, Craxi generò ostilità perenne nei discepoli di Palmiro Togliatti, che ancora oggi, pur avendo cambiato tante volte nome, non hanno fatto fino in fondo i conti con la parte “criminale” della loro storia. La vittoria “epocale” segnata col referendum sulla scala mobile mise poi in crisi quell’idea del sindacato come “cinghia di trasmissione” del Partito che già tanti guai aveva causato in passato.

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