Quale che sia l’obiettivo, la falsificazione semantica delle parole ottiene il risultato di depotenziare, se non addirittura cancellare, l’allarme sociale sempre collegato all’immigrazione clandestina di massa. Per altro in un territorio da sempre presidiato (e ambito) come il suolo degli Stati Uniti d’America, dove oggi l’Amministrazione Biden è pronta a regolarizzare circa 11 milioni di immigrati senza documenti e “dreamers” (gli immigrati arrivati negli Usa da minorenni al seguito di genitori clandestini).
Ma ci sono anche altre parole, entrate nel nostro lessico pandemico, che sono state fabbricate per renderle più accattivanti e farle così associare a un pensiero positivo. O per dissociarle da un significato negativo consolidato, che il loro primigenio nome gli avrebbe consegnato in sorte. Pensiamo a quel green pass che nessuno vuole chiamare, comprensibilmente, col suo vero nome: “lasciapassare sanitario” per il Covid-19. Il termine “lasciapassare” evoca la sensazione di essere sottoposti a un controllo autoritario da parte delle istituzioni; mentre il “pass”, con l’affiancamento dell’aggettivo verde che è assimilato alle encomiabili (e molto di moda) pratiche ambientaliste, richiama l’idea di possedere un accesso esclusivo (come è il pass per lo stadio o per i concerti) a un evento a cui siamo introdotti per nostro merito, e non per altrui arbitrio. Sono sfumature semantiche sottili, che però operano a livello subliminale. Trasformano un’imposizione normalmente rigettata dal corpo sociale in una norma giustificata quale innovazione propulsiva. Nel caso del green pass, propulsiva a un ritorno all’agognata “normalità”. Un ritorno molto incerto nei fatti, quanto indubitabile nella sfera percettiva, con tanto di scadenza e bollo governativi.
Ma davvero siamo tutto quello che vogliamo? Sebbene la definizione di “Genitore 1” e “Genitore 2” possano darci la sensazione di esserci liberati dal sesso (o dal genere) che rigettiamo, tale differenza psicofisica – seppur rimossa nel linguaggio burocratico – continuerà ad appartenerci nella realtà. Perché la realtà scavalca le parole e scavalca le definizioni che la falsificano. L’ideale sarebbe accettare la realtà, o arrivare a un compromesso onorevole (e ragionevole) con essa.
Cancellare orwellianamente il nostro alfabeto è sforzo inutile. Meglio sarebbe usare parole autentiche per introdurre realtà complesse. Creare una “mafia delle parole”, mettendo alcuni termini all’indice o ribaltandone il senso, è un’operazione di mero marketing linguistico, che nei regimi autoritari sfocia sempre nella manipolazione. Può generare forte consenso nel breve termine, ma i suoi effetti collaterali presenteranno il conto con l’esplosione di tutte le loro irriducibili contraddizioni.
Beatrice Nencha, 22 settembre 2021