Un anno e mezzo di convivenza con un virus insidioso e pericoloso, ma non in verità più dei tanti che l’umanità ha conosciuto lungo la sua plurimillenaria storia, imporrebbe un sano pragmatismo e poca retorica. A questa regola dovremmo attenerci tutti, ma in primo luogo coloro che per ruolo istituzionale hanno il compito di mettere in atto le politiche di gestione e contenimento del virus. Avendo fatto la scelta, in sé abbastanza irrazionale, di inseguire il virus con le sue molteplici varianti per sgominarlo, prestando poco attenzione al lato pur importante delle cure per chi malauguratamente l’infezione la contrae, ci si è messi in un gorgo ove è appunto il nostro nemico e non noi a dare le carte. Ciò imporrebbe perciò anche molta cautela nell’uso delle parole, per non creare illusioni e falsi ottimismi destinati poi a essere sconfessati dalla realtà creando inutili rancori e disillusioni.
Parlare perciò, come ancora ieri ha fatto la pur brava ministra Maria Stella Gelmini, di un “ultimo sforzo” per uscire dall’emergenza, cioè per sconfiggere il virus, non fa che reiterare un errore commesso ormai già diverse volte in questi mesi e che ha fatto sì che ogni sacrificio richiesto fosse presentato come l’ultimo e definitivo senza che in verità fosse tale. E che anche in questo caso ci siano buone possibilità che così sia, è fin troppo evidente se si presta un po’ di attenzione ai fatti e si prova ad essere onesti intellettualmente (prima di tutto con se stessi).
Ma l’aspetto più fastidioso della questione è che la retorica dell’“ultimo sforzo” nasconde una verità inoppugnabile, e cioè che di “ultimo sforzo” in “ultimo sforzo” è sempre più l’“emergenza” a diventare (la nuova) normalità. E poiché l’emergenza esige come risposta lo “stato d’eccezione”, cioè la sospensione delle regole formali della democrazia e in misura più o meno ampia delle libertà fondamentali, il rischio è che eccezione diventi in quest’ottica proprio un eventuale ripristino di quelle regole e del totale e erga omnes (cioè non discriminatorio) accesso a quelle libertà. È questo, a mio modo di vedere, il punto vero della questione, attorno a cui un po’ tutti girano attorno senza affrontarlo di petto: le classi dirigenti perché protese a deresponsabilizzarsi e seguire la via più facile; i sì pass perché soggiacenti alle retoriche dominanti, tutte fra l’altro disponibili a buon mercato; i no pass perché, pur avvertendolo, non lo portano a concetto o lo “corrompono” con richieste, pur sacrosante ma banali”, di esenzioni e allentamento della presa. Ed è un punto dirimente perché chiama in causa nientemeno che la natura e qualità della democrazia e il futuro delle nostre società.
Fra l’altro, anche ammesso che il Covid scompaia fra qualche mese, come tutti ci auguriamo, chi ci assicura che altre emergenze, dello stesso e di altri tipi, presto non insorgano e rendano ancora più impellente lo stato di eccezione? E se il green pass ha una funzione anche di controllo, e in questo senso di prevenzione, siamo sicuri che esso non diventi presto definitivo, una sorta di seconda carta d’identità che, per fermare in anticipo terroristi, malintenzionati e virus di ogni tipo, permette di sapere tutto, ma proprio tutto, di noi? Se questa fosca previsione si avverasse, l’”ultimo sforzo” chiestoci per il green pass, sarebbe davvero l’ultimo ma in ben altro senso rispetto a quello a cui pensava la Gelmini.
Ripeto quello che ho detto già in altre occasioni: io non ho una soluzione, ma solo tanti dubbi. Proprio per questo, non perché tema l’avvento di improbabili “totalitarismi sanitocratici”, sono preoccupato. C’è troppa superficialità in giro, e anche troppa sicumera, dall’una e dall’altra parte: troppa poca volontà di porsi domande. Di porre la questione da un punto di vista un po’ più elevato rispetto a quello predominante nella media lasse intellettuale.
Corrado Ocone, 8 agosto 2021