Sul brasiliano Jornal Tribuna Nacional del 24 agosto scorso la giornalista Cristina Barroso ha riportato uno studio inquietante dell’americano Kevin Barry, ex procuratore federale e presidente della First Freedom Inc. Incuriosito da una strana coincidenza, che forse prima dell’attuale pandemia non avrebbe notato, e forse anche intrigato dalle voci sempre più ricorrenti di un’origine artificiale del Covid, cioè qualcosa di sperimentale sfuggito di mano, questi è andato a frugare nella precedente pandemia mondiale, quella che nel 1918-19 provocò più morti dell’appena terminata Grande Guerra. La quale, peraltro, in fatto di sterminio era stata fin lì la peggiore della storia.
Quello di Barry può essere il solito complottismo, ma la coincidenza c’è: lunedì 11 marzo 1918, poco prima di colazione, il medico di Camp Riley nel Kansas, dove si addestravano le reclute da mandare in Europa, il dottor Edward R. Schreiner, si vide arrivare il cuoco Albert Gitchell che lamentava un forte raffreddore. Subito, stessi sintomi, seguì il caporale Lee. W. Drake. A mezzogiorno i “raffreddati” erano già cento. Per farla breve, anche perché la cosa è nota, i soldati sani di quel centro finirono nelle trincee europee. Sani? Oggi li definirebbero sani, sì, ma forse anche «portatori». Così, dopo aver debitamente infettato i camerati, complici anche le condizioni igieniche e alimentari della guerra di trincea, innescarono un meccanismo infernale che nessuno, dei medici di allora, era in grado di spiegare. I soldati che si ammalavano venivano tolti dalla prima linea e mandati nelle retrovie, dove contagiavano altri. E così via.
La malattia fu chiamata «influenza» per il semplice motivo che nessuno sapeva di che cosa si trattasse: «influenza» era il termine astrologico con cui la medicina medievale indicava le malattie ignote e nefaste. È risaputo che quell’«influenza» fece sui cento milioni di morti (si portò via anche i due fratellini pastorelli di Fatima, Francisco e Jacinta, poi canonizzati) e fu detta «spagnola» per il semplice motivo che solo i giornali iberici ne parlarono: la Spagna, essendo neutrale, poteva permetterselo, gli altri erano tutti in guerra e temevano che il nemico venisse a conoscenza della loro difficoltà. A guerra finita, la censura militare non servì più e tutti seppero (ma il nome rimase). Gli americani, si sa, intervennero in guerra solo nell’ultimo anno, sbarcando in Europa, a ondate successive, un milione di uomini. Ma perché la Spagnola si sarebbe dovuta chiamare in verità Americana?
Non solo per l’origine, a quanto si sa, a Camp Riley. Ma anche, sostiene Barry, perché «dal 21 gennaio al 4 giugno 1918 un vaccino sperimentale contro la meningite batterica, coltivato nei cavalli dal Rockefeller Institute for Medical Research di New York, fu iniettato nei soldati di Fort Riley». Post hoc ergo propter hoc? O è solo una coincidenza? Se sì, perché la sperimentazione venne poi accantonata? Sia come sia, a quella guerra parteciparono anche truppe coloniali, che tornate a casa portarono con sé il contagio contribuendo all’ecatombe generale. E cominciando dai più fragili e poveri (la sottoalimentazione e la mancanza di fogne e acqua corrente parteciparono alla grande).
La malattia fu indotta da quel vaccino? Visto che parliamo di Spagnola, quien sabe? E non era solo Camp Riley, visto che, scrive Barry, «quattordici dei più grandi campi di addestramento hanno riportato focolai di influenza a marzo, aprile e maggio». Già dal 1917 molti Paesi convolti nel conflitto, Italia compresa, avevano richiesto al Rockefeller Institute un vaccino contro la meningite, tanto che il centro aveva approntato una stalla speciale per i cavalli da cui trarlo. Per provarlo prima sui soldati americani? Boh. La cosa meriterebbe un’indagine. Che però porterebbe acqua al mulino dei no-vax. Perciò nisba.
Rino Cammilleri, 3 ottobre 2021