Il vero errore degli Usa con la Russia

L’invasione russa è da condannare ma l’imperialismo di Putin non nasce per caso. La causa sono anche le mancanze Usa

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L’invasione russa dell’Ucraina chiude il periodo aperto nel 1991 dalla frantumazione dell’Urss e caratterizzato per trent’anni da un fattore inedito nella storia mondiale: l’esistenza di un solo Stato, quello americano, in grado di produrre gli eventi strategici determinanti, con gli altri Stati confinati nelle proprie agende di taglia nazionale o settoriale (la Cina in campo economico; la Russia focalizzata sulla sicurezza) e incapaci di suscitare azioni decisive. Com’è normale in un assetto unipolare, su Washington, decisore fondamentale (e pro quota sui suoi alleati, in Europa e nel Far East), si concentrano enormi responsabilità.

Gli errori Usa

Nei quarant’anni abbondanti della guerra fredda non era stato così. L’impostazione della politica mondiale, collocata a uno stadio più elevato e influente dei conflitti contingenti, era condivisa tra americani e sovietici e strutturava in modo stringente il campo delle operazioni possibili (la soluzione quasi obbligata alla crisi di Cuba del 1962 è un esempio tipico): la conferenza di Yalta tra Roosevelt, Stalin e Churchill (febbraio 1945) ne aveva fornito la traccia. L’interesse di controparte, che ciascuna superpotenza era vincolata a tenere in conto, migliorava la comprensione strategica di entrambe e aiutava a indirizzare, disciplinandoli, i rispettivi campi.

Dopo il 1991 gli Stati Uniti non appaiono pronti al nuovo contesto di responsabilità, operano per prove ed errori, mostrano variazioni di linea su vari fronti: rapporti con la Russia e azione della Nato in Europa (conflitti in Jugoslavia); iniziative nel Medio Oriente allargato, dalla Libia all’Afghanistan; strategia verso la Cina. Su tutti questi fronti la guerra in Ucraina con i suoi profondi riflessi mondiali segna un punto di svolta: si riqualificano rapporti, cessano iniziative, nascono alleanze e strumenti inediti.

I difficili rapporti con la Russia

Le relazioni con la Russia hanno un andamento erratico, ma alla fine bruciano le condizioni di accordo e sfociano in un contrasto pericoloso su scala mondiale. L’esordio invece è molto efficace e indica una via utile poi dispersa: nel 1994 Stati Uniti e Russia riescono con il programma Cooperative Threat Reduction nella difficile ma essenziale impresa di riportare sotto il controllo di Mosca, in una sola nazione, il vasto materiale nucleare dell’Unione Sovietica che, dopo il crollo, stazionava anche in Ucraina, Bielorussia e Kazakistan. Nella fase iniziale dell’epoca unipolare prevale la linea di apertura impostata da Bush sr. con il segretario di Stato James Baker e condivisa al debutto presidenziale da Clinton: lo scopo è coinvolgere Mosca, di cui si apprezza la mutazione culturale, in forme di partnership politica. Gli obiettivi però cambiano ben presto.

A mutare il quadro influiscono il destino della Nato e il disordine portato dalla frattura dello Stato jugoslavo. L’alleanza militare, strumento essenziale della guerra fredda, dopo il 1991 perde insieme il nemico e lo scopo costitutivo. Il suo destino suscita dibattito: alla fine vince l’istinto di autoconservazione dell’organizzazione che sfrutta il profondo timore nutrito dagli antichi satelliti sovietici e ritrova vitalità decidendo di incorporarli. Molti autorevoli politici sono contrari, da William Perry, segretario alla difesa di Clinton, a George Kennan, l’inventore del containment antirusso, fino più tardi a Kissinger. Nel 1997 si avvia il processo di allargamento a Est, verso i confini della Russia.

La variabile Nato

Nel 1999 la Nato attacca, senza mandato Onu, la Serbia che nella sua provincia autonoma del Kosovo vessa la popolazione albanese (musulmana). Per la prima volta in Europa (la scomposizione di Urss e Jugoslavia nelle diverse repubbliche componenti è altra cosa) una nazione è mutilata di una sua parte che si rende Stato indipendente e confini usciti dalla guerra sono modificati con la forza. La Russia, amica della Serbia ortodossa, non apprezza, ma è troppo debole per reagire: affondata nel disordine di Eltsin, soggetta alla predazione degli oligarchi, sconcertata dall’ideologia mercatista con cui pensa di avvicinarsi all’Occidente, combatte per sopravvivere e infatti nel 2000 il comando passa a Putin.

Nel nuovo secolo i rapporti peggiorano e, nonostante alcune aperture prive di seguito, dopo l’11 settembre Washington opta per azioni forti: offre l’ingresso Nato a Georgia e Ucraina, sponsorizza con armi e milizie in Siria – di fatto protettorato russo – la rivolta (2011) contro il dittatore Assad, incassa nel 2014 con la rivolta di Maidan, forse aiutata da Stati confinanti, il passaggio di Kiev nel campo occidentale. Putin è colto di sorpresa e cerca di limitare i danni con la conquista e l’annessione della Crimea. Il contrasto si generalizza e diventa frontale, l’Europa, che vuole mantenere con Mosca rifornimenti d’energia e relazioni commerciali, si trova sotto pressing (Merkel ha un rilievo storico proprio per la capacità di unire, con acrobazie tattiche, la sicurezza semigratuita di fonte Usa ai vantaggi degli scambi con la Russia). In sintesi, la politica americana riduce la visione generale e con ciò comprime lo spazio per l’interazione strategica con Mosca.

La costante dell’atteggiamento americano verso la Russia nel trentennio unipolare è la svalutazione di potenza, la convinzione che il rivale avanzi pretese esagerate, dissonanti con la sua reale forza economica e sociale: di conseguenza gli Stati Uniti non hanno remore ad agire con iniziative ostili che presumono prive di costo. Anche con la Cina l’atteggiamento di base è la svalutazione, però declinata in un contesto ben diverso: non la politica, con i suoi risvolti di rango nella gerarchia degli Stati, ma l’economia in cui a Pechino non sono posti limiti (regole, controlli). La Cina di Deng non si risente, anzi gioisce perché ciò permette di accrescere produzione e spazi di mercato. Nella prima metà del trentennio nessuno contesta la svalutazione: la Russia perché non può, la Cina perché non vuole.

Il ruolo di Trump

Nella seconda metà l’ostilità con la Russia si stabilizza, mentre con la Cina i rapporti s’immergono nell’incertezza quando Xi svela che il dirompente progresso economico è uno strumento per accelerare l’ascesa verso il prossimo primato mondiale: Obama cerca per un po’ di sminuire la cosa, poi la rende un tema retorico (pivot to Asia), infine si rassegna all’inazione. Trump invece innalza il tema a priorità e cambia l’ordine della politica mondiale centrandolo sulla rivalità sino-americana: ma la svolta giunge molto in ritardo e i suoi costi sono elevati causa l’intreccio quasi simbiotico delle due economie.

La sottovalutazione dei rivali effettivi, perché o quiescenti (Cina) o sofferenti (Russia), dà campo, dopo l’11 settembre, a risposte smisurate, poco dotate di realismo. Ragioni strategiche impediscono di mettere nel mirino il reale centro di responsabilità degli attentati, ovvero l’Arabia Saudita, e quindi elevano a bersagli, sminuendo i problemi di contesto, surrogati improbabili prescelti per ragioni retoriche (immagine da lucidare) tra le quali spiccano i temi della lotta al terrorismo (Afghanistan, Iraq) e della democrazia da esportare (primavere arabe e colorate). Entrambi i temi hanno contenuti imprecisi e non includono scopi strategici chiari. Gli esiti sono drammatici: guerre civili prolungate che danno spazio all’espansione russa (Libia, Siria), sconfitte patenti (Afghanistan), azzardi molto rischiosi (l’Egitto finito in mano ai Fratelli musulmani e poi parzialmente rimesso in campo occidentale da un colpo di Stato), una generale caduta dell’influenza e della credibilità degli Stati Uniti.

Il disordine che si installa per un decennio nell’area compresa fra Tunisia e Afghanistan avvia un duplice sviluppo di lungo periodo: sul piano strategico va in crisi il rapporto con alleati storici come la monarchia saudita e gli emirati (Trump, forgiando i fondamentali accordi di Abramo aveva creato una fase di grande potenziale sviluppo, ma Biden rapidamente riporta tutto nel caos); sul piano ideologico acquista inedito slancio, trainato dall’incremento delle migrazioni, la visione nazionalista, da tempo marginale, e ripiega il tema della democrazia nel mondo. La sottovalutazione – dei rivali o del contesto – contraddistingue l’epoca unipolare; in via speculare segnala una sopravvalutazione del potenziale politico degli Stati Uniti e del mondo occidentale.

La fragilità dell’Occidente

Tuttavia nella parte finale dell’epoca unipolare sale in primo piano un fattore drammatico che deprime l’idea della superiorità americana (ma anche europea) e le toglie la base vitale: la sprezzante condanna dei principi e dei motivi che nei secoli hanno guidato l’ascesa dell’Occidente (cancel culture e non solo). Superiorità e autoflagellazione si contraddicono, levano forza alle pretese ideologiche delle democrazie e le fanno sembrare solo retorica. A marzo 2021 un incontro in Alaska fra il segretario di Stato Blinken e il responsabile esteri del Partito comunista cinese mostra con fragorosa evidenza la fragilità della lezione occidentale: a Blinken che fa rimostranze su Hong Kong, uiguri e diritti umani Yang Jiechi replica citando il seriale autobiasimo americano, da Black Lives Matter ai crimini coloniali. Gioco, set, partita.

Sta per finire un ordine mondiale, il secondo formatosi dopo la fine della guerra mondiale, e non è ancora apparso quello nuovo. I suoi componenti principali sono delineati: la crescente potenza cinese, l’aggressivo revanscismo russo, la stabilizzazione mediorientale basata sull’alleanza fra Israele e monarchie del Golfo (con l’Iran nella parte di potenziale miccia). Quel che non appare chiaro invece è il ruolo degli Stati Uniti immersi tuttora in quella confusione strategica che, con la parziale eccezione di Trump, dura dai tempi di Clinton (tre presidenze a due mandati più Biden).

Antonio Pilati, 20 marzo 2022

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