Il vero motivo per cui Toti ha patteggiato

Il sistema giustizia ha tempi lunghissimi e costi elevati. Il processo alla famiglia Riva insegna

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Toti giudici

Dopo 12 anni i magistrati di appello di Taranto hanno stabilito che il processo Ilva per disastro ambientale è tutto da rifare. Ma non nel medesimo Tribunale perché «il contesto» in cui si sono espressi i giudici «non è sereno». Tra poco ci ritorniamo nel dettaglio. Con un sistema della giustizia così messo, tempi lunghissimi e costi elevati, pensate davvero che un imputato come Giovanni Toti potesse resistere? In che tempi avrebbe avuto giustizia, con quali soldi avrebbe finanziato la sua difesa, quali politici sarebbero stati dalla sua parte? In questa giustizia orwelliana conviene subito chiedere scusa, patteggiare, e sperare nell’oblio.

Si dice che la giustizia italiana è malata. Non è così. La giustizia italiana, piuttosto, è una malattia, di quelle gravi. Che non ti mollano più. Il patron delle acciaierie, il mitico Emilio Riva, si fece un anno di arresti domiciliari per poi passare a miglior vita, senza giustizia. Il processo di primo grado è stato una farsa. Speriamo si possa scrivere, a questo punto. Ha portato a 26 condanne e a risarcimenti miliardari per disastro ambientale e avvelenamento doloso. I due Riva superstiti si sono beccati 26 e 20 anni di carcere. Tutto da rifare. I difensori avevano provato con tutte le forze a combattere nel processo di primo grado.

La tesi dell’accusa è che i Riva non investendo nell’ambiente, uccidevano. Una versione che hanno costruito e giudicato, senza ripensamenti. E a nulla sono valse due sentenze passate in giudicato sulla medesima vicenda. Una era quella del Tar, che stabiliva inequivocabilmente come l’Ilva dei Riva aveva rispettato tutte le prescrizioni ambientali richieste dal governo e che peraltro erano in linea con le migliori pratiche europee. E la seconda sentenza del Tribunale di Milano (che si era preso la briga di indagare su un possibile falso in bilancio) aveva stabilito che i Riva avevano fatto investimenti monstre: 4,5 miliardi di cui 1,2 solo di tipo ambientale. In aula a Taranto non ascoltavano, non valeva nulla. Tanto che in Appello, come si è visto ieri, i giudici hanno stabilito che ci deve essere stato qualche pregiudizio «di contesto» contro la famiglia Riva e i suoi dirigenti. Tutto rinviato a Potenza. Ancora anni per arrivare dunque a una sentenza di primo grado. E poi tutta la tarantella. Qualcuno potrebbe dire che alla fine giustizia è stata fatta. Col cavolo.

Nel luglio del 2012 si procede agli arresti. Dopo un anno si commissaria l’azienda, mettendone al suo vertice il finanziere Bondi, che si intende di acciaio come noi di bambole. Nel 2015 la più importante azienda del sud, un pezzo fondamentale del nostro Pil, strappata ai legittimi proprietari, viene fatta fallire. A un certo punto un magistrato per rendere la vita (economica) impossibile all’azienda sequestrò i prodotti degli altoforni sui piazzali, considerandoli corpi del reato. Neanche Apple potrebbe sopravvivere alle attenzioni di un procuratore di Taranto. E oggi piangiamo la morte dell’acciaio in Italia. Nessuno difese i Riva allora, né la Confindustria né i grandi giornali, con l’eccezione del coraggioso Antonio Gozzi; come in pochi oggi difendono Giovanni Toti.

Per l’Ilva, dopo più di due lustri, la storia giudiziaria è ancora da scrivere, purtroppo per Toti, con il patteggiamento, i giochi sono fatti. In entrambi i casi le Procure sono riuscite nel loro intento: hanno distrutto il complesso industriale di Taranto e hanno annichilito le prospettive politiche di Toti.

Nicola Porro per Il Giornale 14 settembre 2024

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