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Il (vero) partito dell’odio

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Quando, smaltita la crisi del governo Lega-5 Stelle, questi ultimi si sono raggrumati coi perdenti del Pd, alcuni personaggi della nomenklatura piddina – Zingaretti, Franceschini, eccetera – hanno solennemente dichiarato che una nuova stagione si apriva, fine del governo dell’odio, via alla stagione dell’amore. L’odio naturalmente era Salvini anche se nessuno avrebbe saputo dire esattamente perché, posto che il ministro di polizia uscente era stato famigerato per oltre un anno come orco, cannibale, pedofilo (perfino di sua figlia), non uomo, sottouomo, infame, laido, lurido, stragista, bruciato il suo fantoccio in piazza, auspicato a testa in giù in piazzale Loreto, definito “nemico” da giornalisti Rai che auguravano il manicomio a sua figlia di sei anni (e l’Ordine, naturalmente, a guardare altrove); i cuochi da centro sociale continuano a condire i loro deliri antisemiti, anstisovranisti, antagonisti con schizzi di bile grammaticamente rancido.

Però Salvini era l’odio, così, di default, secondo il vecchio trucco comunista della lingua di legno: insisti su una cialtronata, e a lungo andare diverrà un dogma. Ma lasciamo perdere Salvini sott’odio, occupiamoci qui dell’amore di Zingaretti. In effetti, la situazione non pare essere cambiata granché col ritorno, disinvolto, nella stanza dei bottoni, il filo rosso di un amore a senso unico non si spezza mai. Su Bibbiano, le vittime, cioè i bimbi sottratti alle loro famiglie, son diventati i carnefici; gli scandali della galassia di sinistra esorcizzati coi rubli di Mosca; i sottointellettuali dal cranio a siluro o gli occhiali a losanga hanno continuato a ringhiare a tariffa sempre contro i soliti; i naufragi di clandestini sono ripresi “con più fame che pria” e di conseguenza i morti affogati, ma la colpa, anziché finire, per proprietà transitiva, sulle spalle della nuova ministra di polizia, è curiosamente rimasta sul vecchio, Salvini, il disumano.

L’amor che move il sole e le altre 5 stelle, peraltro, si può constatare in un paio di esempi freschissimi all’insegna della coerenza migliore. Se il giornale della borghesia ztl Repubblica dedica alla leader di destra Giorgia Meloni un articolo denso di rozza volgarità, ed ella si permette di replicare, il partito dell’amore rosso non solo non la supporta: la irride, compatisce, insulta vieppiù e conclude: non sopporta le critiche, dunque è autoritaria, dunque è fascista, come volevasi dimostrare. Roba che i processi staliniani erano più articolati, più aperti alla logica formale. Da gente che non tollera attenzioni sulle santine di riferimento, una come Laura Boldrini non può essere nominata invano e neanche a proposito, già il solo pensarla è sessismo, hate speech, fascismo. La Meloni non è una donna, è una fascista nostalgica del mausoleo, una che è doveroso annientare sui megafoni della nuova stagione d’amore, perché così esige la causa democratica.

Poi c’è il caso, atroce, sconcertante, del giovane Luca Sacchi, il 24enne romano ammazzato a revolverate in testa di due balordi mentre difendeva la fidanzata. Sempre la stampa di sinistra (e sempre nella sostanziale disattenzione di un Ordine viceversa molto vigile quando c’è da stangare giornalisti considerati avversari) ha liquidato il ragazzo senza troppi scrupoli: su Open una apprendista giornalista lo ha sistemato in fama di sovranista sbruffone, ha scovato l’appoggio della vittima a Salvini, e tanto è bastato. Il direttore Mentana, uno che appena può dà lezioni di deontologia, l’ha coperta, l’ha difesa; la solita Repubblica è andata in loop sull’italiano abbattuto da italiani, sui social gli adepti della fazione dell’amore esultavano, ironizzavano, vedi il destino, un sovranista ammazzato dai suoi amichetti italiani.

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