Se c’è un peccato che l’intellettualismo odierno non perdona, esso è l’anticomunismo. E in particolare la denuncia storica del comunismo. Peccato di cui si sono macchiati due giganti del giornalismo e del mondo intellettuale internazionale: Giampaolo Pansa e Roger Scruton. Entrambi hanno avuto l’ardire di sputtanare il brand del comunismo duro e puro. Ma nell’Italietta certe cose non sono ammissibili e coerentemente si preferisce infangare e mortificare quando il “peccatore” è già morto. Così non c’è pericolo di diritto di replica.
Jean-Christophe Buisson ne Le Siècle rouge ha denunciato la retorica comunista circa la memoria della storia che lo riguarda iniziando a parlare di “mondi comunisti” e del tronco ideologico comune e condiviso, dall’Avana a Pechino, che consiste nel dividere il mondo in due: borghesi contro proletari, paesi imperialisti e capitalisti contro paesi socialisti. E in un obiettivo identico: rovesciare con la forza bruta i regimi “borghesi”, “liberali”, “coloniali”, “oppressivi”. Fatta la premessa, Buisson non perde tempo nel suo volume ad entrare nei due passaggi chiave che hanno fatto del ‘900 il “secolo rosso”, la tendenza totalitaria del comunismo e la damnatio memoriae di chiunque si sia anche solo avvicinato all’anticomunismo.
Il mito comunista è stato avvolto da una nuvola romantica, immerso in una eroicità che doveva commuovere gli intellettuali che desiderano stare dalla parte degli oppressi. Ed anche se poi dalla parte dei poveri il comunismo mai c’è stato, ad un certo punto si verificò un fenomeno strano per cui, dopo il ’45, osannati per la una certa partecipazione alla Resistenza, i comunisti specie in Italia e in Francia, presero le leve del potere. Quello culturale. Nei teatri, nel cinema, nel giornalismo, nelle università. Era necessario essere amici o militanti della causa comunista per avere un ruolo nella sfera pubblica, per essere assunti, pubblicati, premiati. Non importava, opportunismo o convinzione erano uguali. Ciò spiega perché le menti brillanti siano state lente nel denunciare il comunismo e nel prenderne le distanze. Ed è sempre il motivo per cui gli anticomunisti restano i grandi dimenticati della storia. O meglio i grandi ‘maledetti’.
Dagli anni Sessanta in poi non ha mai smesso di essere vero quello pseudo sillogismo per cui il comunismo è l’espressione della massima nobiltà d’animo, il fascismo è da cani, l’anticomunista è un fascista. Quanto potevano valere Solzhenitsyn, Giovanni Paolo II, gli studenti di destra accusati di lavorare per la CIA negli anni ’70, gl’insorti a Berlino Est nel 1953, Budapest nel 1956, Praga nel 1968 e Pechino nel 1989? Niente rispetto a quel sistema.
E di ciò ne è convinto Jean-Christophe Buisson, che per questo scrive un libro a trent’anni dalla fine del comunismo. Per porre rimedio al mancato ricordo che l’immensa influenza politica, culturale e morale del regime rosso ha esercitato nel XX secolo.
Cecità storica e ideologica producono astio. Quindi ecco la strategia del negazionismo, che Thierry Wolton non smette di condannare “perché non siamo di fronte ad un’interpretazione della storia, bensì ad una negazione della realtà”. E Giampaolo Pansa e Roger Scruton in vita sono stati vittime del negazionismo, appena morti della damnatio memoriae. Entrambi da uomini liberi hanno raccontato, ognuno a modo suo, le malefatte del comunismo.