Ilaria Cucchi e l’uso politico delle vittime

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“Basta parlare di singole mele marce, i casi stanno diventando davvero troppi. Il problema è nel sistema”. Parole sui fatti di Piacenza fino a un certo punto persino condivisibili, ricordando però che gli accusati potrebbero tuttavia essere anche innocenti, fino a giudizio definitivo: il garantismo non vale evidentemente solo per i militanti dei centri sociali. Ci aspetteremmo che chi ha pronunciato queste parole sia però qualcuno profondamente esperto nella materia delle sicurezza e delle forze dell’ordine, che avrà studiato per anni e anni, se addirittura si spinge a proporre una riforma di sistema, sia pur senza indicare la quale.

E invece sono parole di Ilaria Cucchi. Che certo, il sistema delle forze dell’ordine l’ha indirettamente sperimentato sulla sua pelle, vivendo una disgrazia immane. Ed è stata giusta la sua battaglia perché si riconoscesse la verità sul fratello, come la magistratura sta facendo. Non per questo però può presentarsi come esperta di questioni di sicurezza. E invece, ogni volta che avviene un abuso di cui sono accusate le forze dell’ordine, ecco spuntare immancabilmente lei, sempre con la stessa dichiarazione, peraltro. Che competenze, che conoscenze, che sensibilità politica sulla materia possiede, oltre al fatto di essere indirettamente una vittima degli abusi di alcuni esponenti delle forze dell’ordine?

A occhio, nessuna. E questo ultimo caso ci fa riflettere su una caratteristica tipicamente italiana: l’uso politico della vittima. Dalla figlia di Walter Tobagi alle vedove di esponenti uccisi dalle Brigate rosse oppure dal fuoco amico degli americani come il caso di Nicola Calipari alla madre del black block (che stava assaltando una camionetta dei carabinieri) Carlo Giuliani fino appunto a Ilaria Cucchi, presentata senza successo nel 2013 nelle liste di Rivoluzione Civile del magistrato Antonio Ingroia e ogni tanto evocata come possibile candidato sindaco al comune di Roma, sono numerosi i casi in cui la vittima, solo perché tale, senza possedere altri requisiti particolari e spesso magari senza neppure aver svolto in precedenza attività politica, viene portata in primo piano nelle istituzioni, in genere con una candidatura blindata al parlamento

Ca va sans dire che la candidatura è sempre dalle parte della sinistra, anche quando la destra non è stata indirettamente o direttamente responsabile della morte di qualcuno. Il caso di Stefano Cucchi è significativo. Nonostante il ministro dell’Interno al momento della morte fosse Roberto Maroni, non pare che i ministri successivi, sia di governi tecnici che di quelli di sinistra, si siano dati molto da fare. Eppure Ilaria Cucchi si è schierata sempre e comunque dalle parti della sinistra, fino alle polemiche durissime con Matteo Salvini ministro dell’Interno che nulla c’entrava, visto che era arrivato al Viminale nove anni dopo il fatto.

La destra invece, che spesso ha avuto i suoi morti, è sempre stata più pudica a sfruttarli politicamente. Credo che questo derivi dalla tradizione comunista e antifascista, che costruì tutto un martirologio delle vittime della “reazione” e del “fascismo”. In questa visione totalizzante e totalitaria del mondo, non era concepibile che i parenti potessero aderire a una causa diversa da quella del defunto, e quindi spettava a loro continuare il combattimento del padre o del marito.

Questo retaggio politico antropologico si sposa però con una tendenza più recente che il filosofo francese Robert Redeker nel suo ultimo libro, Les Sentinelles d’humanité. Philosophie de l’héroïsme et de la sainteté, chiama “paradigma vittimario”. L’Occidente in decadenza, che ha perso identità e soprattutto voglia di combattere, non esalta più gli eroi ma le vittime, meglio ancora se inconsapevoli. E alla vittima o ai suoi parenti devono essere accordati  privilegi, a cominciare da quello della immunità alla critica. Quale essere mostruoso oserebbe polemizzare con chi ha avuto padre, marito o fratello ucciso?

Ebbene, noi che a questo paradigma non ubbidiamo, abbiamo poche remore a criticare, nel rispetto delle forme e nella civiltà dell’argomentazione, quando la vittima sbaglia nei suoi giudizi. Come è il caso, appunto, di Ilaria Cucchi.

Marco Gervasoni, 24 luglio 2020

 

 

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