Politica

Ilaria Salis IGP, fenomenologia di un prodotto da centro sociale

I giudici ungheresi hanno confermato il carcere per il rischio di fuga. Mentre il Pd è pronto a portarla a Bruxelles

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Sottile è il confine che divide garantismo da complicità; e il garantismo va comunque meritato. Questa Ilaria Salis è una che invece non impara niente: “Io sono dalla parte giusta della storia, mi ispiro ai movimenti rivoluzionari e a Zerocalcare”. Allora resta dove stai, verrebbe da risponderle, d’istinto. La maestrina è una che è accusata di andare in Ungheria a legnare, insieme a una banda organizzata, gente sgradita in fama di neonazista: se lo ha fatto davvero, ha scelto il Paese sbagliato, senza valutare contesto e conseguenze. Come se uno andasse sotto al Kremlino a sbraitare “Putin boia” e sperasse di cavarsela.

Ilaria Salis è il tipico prodotto da centro sociale italiano, convinta, da eterna ragazzina di 40 anni, di poter giocare a vita al terrorismo estetico, alla rivoluzione dei balocchi, costernata se poi qualcuno la chiama a rendere conto delle sue azioni. Ma se in Italia quelli come lei finiscono beatificati e candidati, altrove non funziona così – e va bene così. Ora, il Pd situazionista e movimentista apparentemente diretto da una milionaria svizzera vuole candidare in Europa questa teppistoide da liceo, ma dall’altra parte del banco: la base del partito sarà anche d’accordo, la componente cattolica e magari bigotta storce il naso. Poche storie: la scelta della svizzera, con consulente cromatica al seguito, è in scia ad una tradizione che fin che può flirta col teppismo anarcoide e salvo dissociarsene quando non conviene più, anche se mai completamente.

Martire questa sventata Salis, perché arriva in tribunale in catene? No, spiacente, non è abbastanza. Garantismo vuol dire togliere quelle catene, tutto quello che c’è in aggiunta è complicità. La nostra Ibarruri di Sardegna pretende arresti domiciliari, cioè casa, e magari un futuro radioso da politica europea a 30mila euro al mese: scusasse, per quali meriti? La vecchia storia dei compagni che sbagliavano, ma neanche tanto, nella rivoluzione giocattolo che consisteva nell’abbattere qualche povero cristo di agente di scorta, qualche giornalista inerme o magistrato rigoroso, pretendendo in questo modo onirico di sollevare una classe operaia già messa fuori gioco dalla tecnologia, dalla robotizzazione.

Ma la tradizione sovversiva e teppistoide, quando non terrorista, è sempre stata vista con comprensione, se non con aperta simpatia, da un PCI che intendeva servirsene, salvo scoprire che quelle schegge impazzite non rispondevano neppure al partito e al sindacato: ambiguità incrociate, quella del comunismo istituzionale e l’altra del comunismo sovietista antagonista, che ora si odiavano, ora si intrecciavano. Come se non si sapesse, benissimo, che le BR mai avrebbero potuto coagularsi senza la benevola disponibilità del PCI, almeno per i primi quattro anni. Le prime armi, catorci resistenziali, provenivano dai depositi dei partigiani, tra i quali Gianbattista Lazagna che al giovane, esaltato Franceschini diceva: noi ammazzavano sì i fascisti, ma voi mi sembrate tutti pazzoidi, fate quel che volete, fin che possiamo vi aiutiamo, però io vado a pescare.

Ilaria Salis nella sua presunzione visionaria, infantile, sta sui coglioni, questa la verità. Ci sta alla maniera dei compagni che meno sanno, meno intendono, e più si atteggiano. E ci sta un Pd massimalista e situazionista che vuole premiarla. Non una parola di ripensamento: e una così la mandi a svernare a Bruxelles? La esalti, la premi? Certo, se il messaggio è che chi inscena la caccia al “fascista”, l’antifà permanente, va tenuto su, allora si abbia la decenza di scoprire le carte, di dire: noi siamo storicisticamente così, ogni causa assurda ci fa comodo perché discendiamo dal marxismo pazzoide e il nostro pacifismo, la nostra inclusività sono sempre la stessa cosa.

Noi stiamo coi ragazzini climatici, coi farabutti dei centri sociali, con le maestre che scelgono l’Ungheria credendo di trovarsi nel lassismo italico, paludoso, dolciastro, malsano. Pare che un altro Franceschini stia pronto a sollevare la catastrofica armocromista da responsabilità a lei inaccessibili: non cambierà comunque niente, il massimalismo teppistoide del partito fu comunista è più forte della nomenklatura che passa, delle facce che alla fine restano quelle, Schlein è stata una parentesi giovanilistica, scriteriata, sardinista, per dar tempo ai vecchi mandarini, più o meno marci, di riorganizzarsi; ha fatto ancor più danni di quanto la nomenklatura, presuntuosa, alienata, credesse, si è dimostrata ingovernabile, irragionevole.

La sua campagna acquisti per le Europee ha del demenziale e del vergognoso: Roberto Saviano, qualche giornalista cattocomunista, qualche amica di salotto snobbetto, come la incomprensibile Chiara Valerio, dulcis in fundo una maestrina da centro sociale che non ha l’umiltà di riconoscere che la rivoluzione, o meglio la ricreazione, a un certo punto finisce, si cresce, si cambia. “Io mi ispiro a Zerocalcare” e, si direbbe, alla cara, vecchia, compianta Barbara Balzerani, esaltata da un’altra insegnante in fregola. Come puoi sperare allora che dall’Ungheria ti tolgano le catene per procurarti un alloggio?

Come puoi aspettarti che perfino in Italia i più non ti mandino a dire “allora resta dove stai, cara”, col tuo sorrisino saccente e straziante, di una Peter Pan che si considera dalla parte giusta della storia, senza capire che quella storia è finita, non esiste, non c’è mai stata?

Max Del Papa, 30 marzo 2024

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