Si tratta della peggiore settimana economica del governo gialloverde. Eppure siamo riusciti a piazzare i nostri titoli di Stato al prezzo più basso da un anno a questa parte. Come si concilia l’industria che non va con la finanza che sembra girare? Andiamo per ordine e guardiamo ai fatti.
In un paio di giorni il ministro dello Sviluppo economico, Luigi Di Maio, ha fatto fuori un paio di punti di Pil. Almeno stando a una miscela di dichiarazioni e atti concreti. Con il cosiddetto decreto-crescita ha tolto lo scudo penale ai nuovi acquirenti dell’Ilva, gli indiani di Arcelor-Mittal. Lo scudo penale è del tutto ragionevole. Non solo perché era nei patti informali del contratto di vendita. Ma soprattutto perché chi si avvicina all’Ilva rischia l’arresto, vista la tendenza alle manette facili dei nostri magistrati e le assurde leggi che si sono susseguite.
Forse sfugge ai più che l’Ilva è stata espropriata alla legittima famiglia proprietaria, i Riva, senza che ci sia ancora stata una condanna di primo grado. I Riva esattamente nell’estate di sette anni fa furono arrestati, nel colpevole silenzio della Confindustria e dei benpensanti, e ancora non hanno subito una condanna che sia una, nel processo tarantino. In un Paese che espropria ai legittimi proprietari un’acciaieria che produceva fior di utili, sbattendoli in galera con accuse micidiali ancora prima di una condanna, ebbene in quel Paese uno scudo penale sugli eventi del passato è il minimo che un investitore possa chiedere. Ci rendiamo conto che sia difficile spiegare questa banale considerazione a chi pensa di sostituire gli altiforni con la coltivazione delle cozze. Ma gli indiani si fanno i loro conti, senza contare che, visto il mercato, possono essere alla ricerca di un fallo in aerea per mollare tutto.
Lo scudo che Di Maio nega è stato invece previsto per quei funzionari pubblici che, su input della politica, firmeranno la revoca delle concessioni alla società Autostrade. Roba da pazzi. Ma è tutto vero: il governo ha previsto uno scudo legale per i suoi dipendenti. E Di Maio non contento ha sostenuto non solo di volere togliere la concessione a un’azienda che ha un contratto in essere, ma – cosa altrettanto grave -, ha detto al mercato che dopo il suo intervento quell’azienda sarà «decotta». Non ci si può credere, ma è tutto vero. Atlantia gestisce autostrade in tutto il mondo, ha vinto appalti per aeroporti dalla Francia al Sud America, ha trentamila dipendenti. Che facciamo, diamo loro e a quelli dell’Ilva un bel reddito di cittadinanza e quattro cozze in omaggio?
In questo disastro, le aste dei titoli pubblici italiani vanno alla grande. Abbiamo piazzato 250 miliardi dei 400 che dobbiamo vendere ogni anno di Bot e Btp. I primi sono tornati a rendimenti negativi (è quasi difficile capire cosa voglia dire) e i buoni a dieci anni fruttano un misero 2 per cento, cioè mezzo punto percentuale in meno rispetto ai mesi scorsi: siamo al livello più basso da aprile 2018.
Il motivo è semplice. E si chiama Mario Draghi. Mettiamoci l’anima in pace. Fino a quando la Banca centrale europea farà una politica monetaria lasca (e cioè stamperà moneta con tassi bassi) anche il nostro indebitato Paese potrà vivacchiare. Nel breve periodo la finanza dipende solo dalla Bce. Il problema è il lungo periodo, è quello che riguarda le prossime generazioni. Che dovranno pensare a raccogliere i fiori più che a lavorare in un Paese in cui la sua classe dirigente si divide sullo spread e snobba la difesa di quel poco di industria che è rimasta.
Nicola Porro, Il Giornale 29 giugno 2019