L’Ilva era uno dei tanti improduttivi carrozzoni italiani quando fu rilevato dalla famiglia Riva, che ne fece un polo industriale modello. Distrutto da una magistratura che dovrebbe sentire il peso del rimorso della malagiustizia perpetrata. Non è comprensibile come ciò sia potuto avvenire, a meno che non ci fosse un piano “superiore” mirato alla distruzione degli stabilimenti. Non è dietrologia: è da trent’anni che si persegue, con successo, la de-industrializzazione del Paese.
Nel documento di cui si servì a suo tempo la magistratura per sollevare il caso e incriminare l’Ilva di disastro ambientale (a oggi ancora nessuna condanna), stava indirettamente scritto che l’Ilva non inquinava e che non vi erano aumenti di patologie attribuibili ai presunti inquinanti. O meglio, sta scritto, in quel documento, che l’Ilva inquinava e che i tarantini nei quartieri vicino all’Ilva morivano e si ammalavano più che altrove, ma questa conclusione era contraddetta dai dati dello stesso documento e dai metodi dichiarati per elaborarli. Giova qui ripetere alcuni punti cruciali.
Nell’indagine epidemiologica si attribuivano alle emissioni dell’Ilva, ogni 100.000 abitanti, 9 decessi l’anno, che sono, dice il documento, l’1.2% dei decessi totali. Senonché, siccome 9 è l’1.2% di 750, allora il tasso di mortalità nei quartieri incriminati era 750. Ma il tasso di mortalità è, in Italia, 1000! Quindi, non solo nei quartieri attorno all’Ilva non si moriva più che altrove ma, ad essere precisi, si moriva di meno. Non v’era il corpo del reato o, se volete, la presunta vittima del presunto assassinio risultava essere viva.
Se non v’erano morti in più, v’erano malati in più? Secondo l’Arpa-Puglia, sì; anche se, a dire il vero, il tasso di mortalità per tumori in provincia di Taranto era inferiore a quello italiano. Il calcolo che fecero è il seguente. Dissero che il limite di esposizione al benzoapirene (Bap) è, come media annua, 1 ng/mc (nanogrammo/metrocubo) e che ogni nanogrammo in più aumenta di 9 centomillesimi il rischio di tumori. Ergo, dissero, avendo misurato tra maggio 2008 e maggio 2009 una concentrazione di Bap pari a 1.3 ng/mc in un’area di 18.000 abitanti, allora, moltiplicando tra loro i numeri appena detti risultano 2 casi di tumore in più. Trilussa avrebbe fatto meglio.
Il calcolo sopraddetto assume che sia vero che “9 centomillesimi” sia la probabilità di contrarre tumore per esposizione ad una concentrazione di Bap di 1 ng/mc in più oltre il limite di legge. È, questa, la ipotesi cosiddetta lineare-senza-soglia, ordinariamente usata per suggerire i limiti di esposizione ad un agente dannoso. Lineare significa che esposizione dimezzata implica effetti dimezzati ed esposizione decimata implica effetti decimati. Senza-soglia significa che solo esposizione nulla implica effetti nulli. L’ipotesi, palesemente errata, è pur tuttavia utile, in mancanza di altre informazioni, nell’ambito della protezione dagli agenti dannosi. In quanto errata, però, non può essere usata per fare calcoli statistici e, in particolare, per valutazioni nell’ambito della patologia.
Lo abbiamo già spiegato, ma conviene ripetere che non è lecito il seguente ragionamento: siccome bere la caffeina di 200 caffè porta con certezza all’obitorio, allora bere un caffè dà probabilità 1/200 di morire, cosicché se 200 mila vostri concittadini hanno bevuto un caffè stamattina, allora stamattina nella vostra città 1000 sono morti intossicati da caffeina. Questo è il tipo di calcolo che eseguirono i periti della magistratura!