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Imane Khelif, il binarismo e il fallimento delle pretese Lgbt

Se per la galassia arcobaleno esistono n-mila generi, la vicenda della pugile algerina ribadisce la verità: non si scappa da uomo e donna

Imane Khelif © Pattadis Walarput e ADragan tramite Canva.com

I soloni sono tutti convinti: il caso di Imane Khelif conferma che il binarismo non esiste. Niente di più sbagliato, con buona pace della rumorosa minoranza Lgbt. I fatti sono noti a tutti: la pugile algerina che ha battuto l’italiana Angela Carini alle Olimpiadi di Parigi è intersex. Entrando nel dettaglio, l’intersessualità è un termine ombrello che include tutte le variazioni innate (ovvero presenti fin dalla nascita) nelle caratteristiche del sesso, caratteristiche che non rientrano nelle tipiche nozioni dei corpi considerati femminili o maschili. Queste variazioni, evidenzia l’Iss, possono riguardare i cromosomi sessuali, gli ormoni sessuali, i genitali esterni o le componenti interne dell’apparato riproduttivo.

Alcune condizioni non sono sempre visibili alla nascita, precisa il portale, ma le persone intersessuali possono avere caratteristiche anatomiche, cromosomiche o ormonali che non corrispondo alle definizioni standard di maschio o femmina. E i numeri? Secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, fino all’1,7 per cento della popolazione mondiale nasce con tratti intersessuali. Tutto questo discorsone per dire cosa? Per tratteggiare la situazione della Khelif, che deve fare i conti con una condizione patologica e non con il superamento del binarismo: l’anomalia si identifica in relazione alla normalità. Ed è comprensibile che la galassia arcobaleno non sia d’accordo, ma questa è la realtà dei fatti.

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Non è nemmeno sbagliato considerare il raggruppamento intersex come una sorta di paravento del mondo Lgbt, utile per portare avanti certe pretese. Impresa fallimentare, perchè il buonsenso non ammette deroghe. Uomini e donne, non c’è altra strada. Poi, certamente, bisogna fare altre considerazioni riguardanti le condizioni patologiche, come il caso della Khelif, esclusa in precedenza dai Mondiali targati IBA per la presenza nel test del DNA di cromosomi XY, caratteristici del sesso biologico maschile. Riflettori accesi sulle alte cariche di testosterone, soprattutto se si tratta di uno sport da combattimento, e non esiste cosa più sbagliata che affrontare l’argomento in maniera ideologica, perchè in gioco c’è la salute e la sicurezza delle donne.

A causa della sua condizione, la Khelif ha una prestanza fisica maggiore rispetto a qualsiasi donna e dunque il confronto risulta impari. Questo, soprattutto alle Olimpiadi, non può essere assolutamente permesso. E questa disparità non è stata paventata dai “brutti fascisti al governo” o dai “sabotatori russi dell’IBA” ma dall’Amigay spa, l’associazione di medici e professionisti della sanità Lgbti e frendly: il presidente Manlio Converti ha parlato di “lieve vantaggio” dal punto di vista fisico. E se lo ammette chi è al fianco del mondo arcobaleno…

Come è possibile consentire a un’atleta iperandrogina di gareggiare nella categoria femminile? I criteri del Cio non sono quelli dell’Iba, lo sappiamo. La soluzione non è abbracciare l’inclusività a ogni costo – come da anni si prova a fare con i transgender – ma prevedere categorie specifiche per donne e uomini alle prese con determinate condizioni. Semplice ed efficace. E tanti saluti alle comunità variopinte.

Franco Lodige, 3 agosto 2024

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