Il ritorno all’immunità parlamentare: una battaglia di civiltà!
«Vi confesserò a questo punto una mia perversione – scriveva il direttore del Dubbio nell’editoriale del 1° febbraio u.s. – io credo che andrebbe ripristinata alla svelta l’immunità parlamentare, che non fu concepita da un drappello di garantisti pazzi, o dai guardaspalle di Berlusconi, ma dai padri della nostra Costituzione. Gente tipo Calamandrei, De Gasperi, Einaudi, Togliatti, La Pira, Dossetti, Basso… E vi dico ancor di più: estenderei l’immunità parlamentare ai consiglieri regionali e ai governatori».
Parole sante giacché non può esserci autentica divisione dei poteri, e quindi società liberale, senza l’immunità parlamentare che affidi al legislativo il giudizio sul comportamento di un suo membro, come affida, del resto, all’ordine giudiziario un potere analogo – senza sollevare, peraltro, alcuna protesta da parte dei giustizialisti di ieri e di oggi.
Ai giovani che oggi si affacciano alla vita pubblica – ha scritto Margherita Boniver in un esemplare articolo di alcuni anni fa sull’Ircocervo – «occorre spiegare, innanzitutto, che l’immunità parlamentare non è un privilegio dei politicanti corrotti, ma, fin dal Bill of Rights del 1689, un istituto volto a tutelare gli interessi della collettività, prevenendo, secondo l’insegnamento di Montesquieu, eventuali condizionamenti del potere giudiziario sullo svolgimento della dialettica politica. Il costituzionalismo, infatti, intende la libertà e l’indipendenza dei singoli parlamentari quali strumenti per assicurare il pieno funzionamento dell’assemblea rappresentativa e, dunque, indirettamente, l’intero equilibrio del sistema dei poteri pubblici».
Sui guasti provocati dall’abolizione dell’immunità parlamentare non intendo trattenermi: la letteratura in proposito è vasta e la documentazione facilmente accessibile. Vorrei richiamare l’attenzione, invece, sullo stile di pensiero profondamente illiberale che si manifesta, talora scopertamente, in quanti (come Emma Bonino) non riescono neppure a concepire «la necessità e l’urgenza di tornare indietro» rimettendo in discussione una legge che, a parer loro, poneva fine all’«impunità parlamentare». Uno stile di pensiero illiberale, quello della Bonino & C., già per il fatto che – come è tipico della ‘mens totalitaria’ e del fanatismo ideologico – un dilemma oggettivo, quello relativo ai vantaggi e agli inconvenienti di un istituto (chi potrebbe negare gli abusi dell’immunità parlamentare?) viene liquidato come un falso problema, un tentativo di reintrodurre privilegi insostenibili nell’età in cui la legge è uguale per tutti.
In realtà, all’origine dell’insofferenza verso il principio dell’immunità, non c’è solo il populismo dipietrista dei nostri giorni ma un costume della mente che ha un cuore antico e che si ritrova nella famiglia ideologica che, più di ogni altra, ha imprintato la civic culture dell’Italia repubblicana. Ne costituisce un esempio un vecchio scritto di Ernesto Rossi ripreso da Critica liberale l’8 aprile 2014.
«All’origine con un tal privilegio si intendeva proteggere il parlamento contro un esecutivo non democratico che volesse chiudere la bocca ai deputati scomodi, processandoli; e certo lo spettro del fascismo ha aleggiato sull’estensione dei regolamenti. Ma del sistema si è abusato. Si è dato il caso di uomini politici influenti in questa o in quella provincia che, minacciati di qualche scandalo o notoriamente colpevoli di reati, sono stati portati in parlamento prima che potesse aprirsi il processo. Il maggior inconveniente è però simbolico: fa capire che il parlamentare appartiene a una razza diversa dalla gente che dovrebbe rappresentare».
In queste parole, c’è una verità da integrare e un pregiudizio da rimuovere. La verità da integrare è molto semplice: la ‘ratio’ dell’immunità parlamentare non sta nella tutela dalla prevaricazione dell’esecutivo non democratico (un re assoluto o un dittatore) ma nella tutela da ogni potere forte che possa limitare le libertà garantite a un rappresentante del popolo sovrano. E se tale potere fossero i tribunali della ’democrazia giudiziaria’, per adoperare la pertinente espressione di Angelo Panebianco? È facile dire che «non ci si difende dal processo ma nel processo» quando si è sicuri di come andrà a finire poi la chiamata in giudizio, in un paese che va sempre più somigliando alla Cina dei Signori della guerra e in cui solo gli ingenui possono vedere nella magistratura un potere ‘super partes’.
Il pregiudizio sta, invece, in quell’«uno vale uno» che, da Rossi in poi, è stato ripetuto fino alla nausea. Un pregiudizio tersitesco e plebeo giacché il parlamentare non sta sullo stesso piano «della gente che dovrebbe rappresentare». Non è un «delegato» del popolo – ahi questo rousseauismo eterno che dai piani alti di Ernesto Rossi arriva agli scantinati plebei del M5S! – ma è un «rappresentante» del popolo, come spiegava un grande liberale conservatore, Edmund Burke, ai suoi elettori di Bristol.
Un re indegno, un parlamentare indegno, un ministro indegno vanno rimossi dalla scena pubblica – nei diversi modi previsti dalle diverse costituzioni – ma «non sono come noi», hanno un carisma d’ufficio senza il quale non è pensabile l’Autorità dello Stato. Come ha scritto di recente Luca Ricolfi:« nessuna istituzione può resistere nel tempo se non conserva, a dispetto dei suoi limiti, il rispetto dei singoli e delle altre istituzioni».
Dino Cofrancesco, Paradoxa Forum