Il dramma di queste ore è la totale ignoranza economica (non conoscenza di come gira il mercato) di chi ci sta governando. Altro che reddito di cittadinanza, tra poco ci proporranno un reddito di disoccupazione.
Le cose andrebbero molto meglio se il capo politico dei Cinque stelle, non fosse baby Di Maio, ma suo padre. Quest’ultimo infatti ha perfetta conoscenza della pratica economica del sud Italia. Ha un paio di baracchette e una carriola considerate abuso edilizio, per le assurde norme che ci siamo dati. E sa cosa vuol dire avere un po’ di addetti in nero (pare fossero tre) nella sua piccola azienda edile. Per la quale, se non sbagliamo, è passato anche Luigi, ma forse per troppo poco tempo. Insomma ciò che vogliamo dire è che l’economia è molto diversa da come la immaginano nelle stanze di Roma, signori che non l’hanno mai frequentata. L’idea che i giallorossi si sono fatti è che il mercato sia fatto dai decreti-legge. Per la verità lo credevano anche i gialloverdi: furono loro a pensare che la povertà fosse stata abolita per decreto, che quota 100 avrebbe fatto assumere giovanotti nelle imprese private e che la dignità si stabiliva per norma. E continuano imperterriti per questa strada.
Viviamo nel paradosso che questo governo ha promesso di fare (non è il primo e non sarà l’ultimo) ciò che nessuna impresa (neanche la più florida al mondo) è in grado di fare: assumere 450 mila persone in tre anni. Molti sostituiranno dipendenti pubblici che sono già usciti. Ma conta relativamente poco. Le tasche sono sempre le stesse e cioè quelle del Tesoro: che da una parte pagano le pensioni e dall’altra gli stipendi. Tasche che sono rifornite con le nostre imposte. Ovviamente.
Fermiamoci un attimo a ragionare. Ma tutte queste imposte per far funzionare la macchina pubblica, per le nuove assunzioni da dove sono generate: dall’impresa privata. Ma quest’ultima è boccheggiante. Il Movimento Cinque stelle non ha mai nascosto la sua ostilità all’Ilva. E oggi è praticamente chiusa. Non voleva la Tap, ma per fortuna non sono riusciti a bloccarla. Così come ha fermato un bel numero di opere pubbliche. Sono riusciti, sono cose minime dall’effetto massimo, a realizzare dei decreti attuativi sulla ricerca clinica, per cui non ci sarà più una multinazionale disposta ad investire in Italia, per i rigidi paletti sul conflitto di interessi. Stiamo tentando di distruggere l’industria della plastica, seconda in Europa, riempiendola di imposte. L’auto da tempo è scappata. Per la prima volta da anni il distretto di Brescia (concentrato sull’automotive) ha segnato il meno nella sua produzione industriale. Il governo che aveva un venditore di bibite allo Sviluppo economico e oggi agli Esteri, ha deciso di tassare la merce che dava la mancetta al ministro in calzoncini. Tutti gli imprenditori sanno che da domani rischiano le manette: prima si mettono e poi si vedrà. E li obbligheremo a rispondere di cosa fanno le aziende terze a cui appaltano un pezzo della loro commessa.
Insomma stiamo incasinando talmente le cose, per cui oggi si dovrebbe andare, come fece Calderoli, con il lanciafiamme. Dovremmo azzerare tutto e ricominciare da capo. Ma soprattutto dovremmo avere qualcuno al governo, che pensi con una testa diversa: meno giuristi e più contadini. Il lavoro non si crea per decreto, l’evasione non si combatte con le manette, l’Ilva non si trattiene cambiando le carte in tavola, l’economia non riprende ingaggiando mezzo milione di dipendenti pubblici, per quanto necessari possano sembrare. Le aziende come quelle di Di Maio senior si devono inventare ogni giorno un modo per campare: qualcuno lo fa anche illegalmente o ai limiti della legge, ma nessuno si azzarda in un momento in cui le cose precipitano ad assumere più personale.
Nicola Porro, Il Giornale 16 novembre 2019