Troppo facile tagliare la Siria con un coltello, dividendo le parti in causa tra sostenitori del “sanguinario Assad” e “ribelli” che cercano la libertà dopo anni di oppressione. Intanto perché non tiene conto delle decine di parti in causa nel conflitto e che si dividono il territorio siriano che ormai da anni non è unito sotto un unico dominatore: russi, americani, turchi, curdi, iraniani, salafiti, alawiti, cristiani, sunniti e sciiti. E poi perché non è detto che alla fine la conquista del potere da parte di Muhammad al Jolani non finisca col far cadere il Medio Oriente dalla padella alla brace. Il suo passato in Al Qaeda, Isis e altre formazioni jihadiste, oltre a quella taglia da 10 milioni di dollari che pende sul suo capo, non permettono certo di dormire sonni tranquilli. E infatti le donne, soprattutto quelle alawite che sostenevano Assad, stanno pian piano decidendo di tornare ad indossare il velo islamico che non portavano da quasi mezzo secolo.
A raccontarlo a Repubblica è un freelance e traduttore che vive nella Damasco “liberata”. Abita nel quartiere di Mazzeh, dove hanno le loro case molti alawiti e soprattutto militari ed ex membri della Sicurezza siriana. Racconta che ai soldati sarebbe stato ordinato di ritirarsi, di non opporre alcuna resistenza contro i ribelli che hanno avanzato in pochi giorni su Aleppo, Hama e infine sulla capitale, un racconto che rafforza l’ipotesi di una decisione presa a tavolino. Si sussurra che la caduta degli Assad sia stata pianificata a Doha in un vertice a tre tra Turchia, Russia e Iran. Secondo questa ipotesi, Mosca avrebbe garantito un salvacondotto alla famiglia dell’ex dittatore e concordato con i ribelli insorti il mantenimento delle due basi più importati: lo scalo di Latakia e il porto di Tartus. Sempre che al Jolani intenda rispettare l’eventuale accordo.
Il freelance siriano racconta delle 48 ore di terrore vissute a Damasco. Degli spari incessanti. Dell’esercito siriano che abbandona le armi. Dei miliziani dell’Hts che arrivano e iniziano a dettare legge dopo aver aperto le tremende carceri politiche di Assad. “La mattina ho avuto modo di parlare con i ribelli – scrive – stavano cercando di organizzarsi, si erano riuniti e passando per le strade con le jeep usavano gli altoparlanti per dare indicazioni alla popolazione. Sono venuti anche al nostro quartiere, hanno detto ai residenti di consegnare le proprie armi e che non avrebbero fatto del male a nessuno”.
Al Jolani ha deciso di mostrare il suo volto moderato, anche ritornando al suo antico nome di battesimo Ahmed al Shara, motivo per cui – tra le altre cose – non è ben visto dall’Isis. Il nuovo raìs ha garantito l’amnistia per tutti i soldati e i poliziotti del vecchio regime. E in un decalogo diffuso su Telegram ha invitato i suoi miliziani a “prevenire qualsiasi interferenza con l’abbigliamento delle donne o imporre qualsiasi richiesta relativa al loro aspetto o al loro pudore, la libertà personale è garantita a tutti”. Ma come ha spiegato ieri a Quarta Repubblica il ministro Matteo Piantedosi, la situazione è talmente “indefinibile” che tutto può accadere. Anche i talebani nei giorni della rocambolesca ritirata americana si erano presentati come diversi dal passato, più moderati, meno islamisti. Poi è andata come è andata una volta che l’Occidente ha abbassato la soglia dell’attenzione mediatica verso l’Afghanistan.
Cosa succederà alle donne iraniane ora che è risorta “la grande Nazione islamica”? Quali decisioni prenderà il nuovo premier Muhammad Bashir, già capo del governo jihadista di Idlib, laureato in Sharia? “Ieri per la prima volta siamo usciti – racconta il cronista a Repubblica – Sono andato con mia moglie a visitare mia suocera malata. Mi ha chiesto prima di uscire se non fosse più prudente indossare l’hijab. Abbiamo deciso di non farlo. Per strada abbiamo incrociato i miliziani ma non ci hanno detto nulla. Ciononostante, sappiamo di altre amiche che hanno già scelto di coprire il capo per evitare problemi. In generale le minoranze hanno paura. Uno dei miei migliori amici è cristiano e ha una gioielleria: teme di perdere tutto”.
In fondo il caso afghano insegna: dopo tre anni di potere talebano, riportava l’Ispi in un recente rapporto, l’ala pragmatica dei movimento è stata sconfitta e i radicalisti prosperano. “Nel Paese, gli spazi di libertà si contraggono – si legge – Le discriminazioni di genere si consolidano e diventano sistemiche e istituzionalizzate”. Succederà anche in Siria?