Medicina ed etica

Indi Gregory è italiana, corsa contro il tempo. È giusto salvarle la vita?

Il governo italiano si riunisce d’urgenza: concessa la cittadinanza alla bambina di 8 mesi a cui l’Alta Corte londinese vuole staccare la spina

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indie gregory

Indi Gregory forse ha un’ultima speranza di vita. La sta concedendo il governo italiano che oggi ha riunito in fretta e furia il Consiglio dei ministri e ha deliberato in pochi minuti la concessione della cittadinanza italiana alla bimba inglese, affetta da una rara malattia mitocondriale, a cui l’Alta Corte britannica intende sospendere i trattamenti vitali. La mossa a sorpresa, salutata con gratitudine dai genitori (“grazie di cuore”), potrebbe cambiare le carte in tavola e permettere il trasferimento all’Ospedale Bambino Gesù di Roma evitando così che le venga “staccata la spina” a soli otto mesi.

La decisione del governo italiano è inaspettata. E fa tornare alla memoria un paio di episodi del passato: Charlie Gard, Alfie Evans e Archie Battersbee, tutte giovanissime vite spezzate dalle decisioni di freddi tribunali spesso in contrapposizione col volere dei genitori. Le sentenze inglesi, compresa quella di Indi, si basano sul principio del “massimo interesse del minore”. Tradotto: stacchiamo la spina per risparmiare dolori inutili al malato. Per Archie, Alfie e Charlie non si riuscì a fare nulla, stavolta invece un barlume di speranza c’è benché si tratti di una “corsa contro il tempo”. Indi si trova al Queen’s Medical Center di Nottingham e la sentenza dell’Alta Corte dovrebbe essere resa operativa oggi stesso. Ad inizio novembre un giudice aveva rigettato il ricorso dei genitori e negato il trasferimento nel Belpaese: il conferimento della cittadinanza italiana potrebbe permettere di aggirare l’ostacolo, ma non è scontato. “Sono ore frenetiche – fanno sapere i legali della famiglia – e di grande lavoro per mettere a punto una procedura che le consenta di atterrare a Roma”.

I medici inglesi sono convinti che, a fronte della sindrome degenerativa che provoca il mancato sviluppo dei muscoli, le terapie non sarebbero utili e “causano dolore”, dunque sono pronti a farla finita. Papà e mamma però no. Vorrebbero alimentare anche l’ultimo anelito di speranza. Utopia? Forse. Ma perché non tentare? Su questo sito l’avevamo già detto e scritto ai tempi di Archie. Qui la questione non è esclusivamente medica, ma anche etica. Quale diritto ha lo Stato, attraverso il potere giudiziario, di scegliere al posto della famiglia se far vivere o meno un bambino? Certo, ribatterete: che vita è quella passata in un ospedale attaccata ad una macchina? Obiezione accolta. E se non ci sono cure certificate, né l’illusione che possa guarire, perché insistere? Comprensibile. Nessuno mette in dubbio che la questione sia alquanto spinosa e tocchi un largo spettro di argomenti sul fine vita, sull’eutanasia, sul diritto di ogni individuo di decidere il proprio destino (di vita o di morte). Aggiungiamo tuttavia un elemento alla riflessione. Anzi due.

Il primo riguarda le speranze di Indi. Per i giudici inglesi “nulla suggerisce” che il “trattamento dell’ospedale italiano” possa avere effetti positivi. Per i genitori, Claire Staniforth e Dean Gregory, “qualche rischio” è sempre meglio di “morte certa”. E poi la cronaca è piena di casi simili del passato che dovrebbero far riflettere. Il destino di Tafida Raqeeb doveva essere lo stesso di Indi: i familiari però vinsero lo scontro in tribunale, evitarono l’interruzione del supporto alle funzioni vitali (disposto invece dall’ospedale inglese) e riuscirono a trasferirla al Gaslini di Genova: nel 2020 è stata dimessa ed è migliorata. Anche per Alex Montresor vale lo stesso discorso: affetto da una malattia genetica rara, sottoposto a un trapianto di cellule staminali a Roma, si è ripreso fino ad avere una vita “normale” al pari dei suoi coetanei. Certo le condizioni mediche erano diverse da quelle di Indi, decisamente più gravi, ma se la fiammella del sogno nei genitori brucia ancora, per quanto ridotta al lumicino, affogarla appare crudele.

Secondo elemento. L’aberrazione inglese non riguarda tanto il singolo caso di Indi, bensì l’intero sistema. Ovvero il principio secondo cui un giudice può decidere al posto dell’individuo. Decretato per legge il “best interest” del minore, determinato peraltro non si sa bene da chi, si procede burocraticamente in barba al volere del singolo (o del suo tutore). Se lo Stato arriva a tanto per mezzo di una toga, siamo sicuri che la “libertà individuale” sia davvero garantita?

Giuseppe De Lorenzo, 6 novembre 2023

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