Esteri

Instagram, account chiuso perché sono ebreo

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Questa è la storia che sta alle spalle di migliaia di altre storie pubblicate su Instagram. Di come la mia vita è cambiata per sempre da quel maledetto 7 ottobre e di un fenomeno preoccupante: sui social network di Meta, in sordina, è stata lanciata una caccia virtuale all’ebreo. La grande piazza Instagram, luogo d’incontro d’elezione assieme a Tiktok di milioni di giovanissimi che s’informano sempre più sui social e sempre meno sui classici canali di informazione, è sempre più Judenrein.

Nemmeno “Israele in Italia”, la pagina ufficiale dell’Ambasciata d’Israele a Roma, gestita dalla comunicazione della missione diplomatica di un Paese da 69 giorni in guerra per la sua sopravvivenza, è stata risparmiata. E insieme a lei è stata oscurato anche il mio account e quello di molte altre persone in tutto il mondo. Giornalisti, Influencer, artisti e persone “comuni”, ree di aver postato una semplice Hanukkiah (il candelabro della festa di Hanukkah) e di avere in comune il fatto di essere ebrei, israeliani o entrambe le cose.

Sono un foto e video reporter, uno di quelli con la fortuna di lavorare per una realtà solida, in grado di garantire ai suoi dipendenti ogni mese uno stipendio e la giusta sicurezza. Il mio account Instagram non era diverso da quello di migliaia di altri colleghi: foto pubblicate ordinatamente e meticolosamente una dietro l’altra, lasciate lì sole solette a futura memoria di un passato recente più insicuro – quello dello studente, del freelance. Un passato in cui si sognava di più e certamente si era più creativi. Inutile dire che, i pochi sogni che mi restano, sono stati uccisi dai minuti immediatamente successivi a quel brusco risveglio e cioè all’alba del 7 ottobre quando il collega e maestro Michael Sfaradi mi buttò giù dal letto dicendomi: “Dario, qui sta succedendo qualcosa di enorme!”.

Ciò che non mi aspettavo, era l’arrivo di notifiche, impazzite, di Instagram. È lì che ho fatto, nel mio più grande stupore – nelle pagine e nelle storie dell’applicazione, prima amata e poi snobbata, non sulle pagine degli illustri quotidiani, la conoscenza dei pick up bianchi di Hamas, della macelleria di Re’im, e dei pogrom a Kfar Aza e Be’eri: nomi un tempo legati a luoghi e ricordi felici, entrati a pieno titolo, in appena 10 ore, nella lunga lista di atrocità rese possibili dall’odio anti-ebraico cresciuto all’ombra di Auschwitz.

Nonostante Auschwitz. È su Instagram, nell’alternarsi frenetico delle notifiche delle vittime e dei carnefici, quasi tutti giovanissimi, che ho scoperto che un mio conoscente, un ragazzo gracile e dagli occhi buoni, assai lontano dallo stereotipo dell’ufficiale, era stato ucciso dai terroristi senza aver avuto nemmeno il tempo di difendersi. Ed è su Instagram che, una volta rubatogli il cellulare, il suo assassino ha trucidato in diretta live assieme ai suoi compagni e in un tripudio di cuoricini lanciati da migliaia di civili gazawi 35 giovani soldati e soldatesse. Un’intera guarnigione spazzata via… nel tempo di un post. E poi le umiliazioni, gli stupri, i rapimenti dei “civili israeliani”, termine che difficilmente rende giustizia a donne, vecchi e bambini anche di appena 9 mesi, inghiottiti dai tunnel di Hamas nell’intermezzo tra una diretta e l’altra.

strage hamas

È su Instagram che, quella terribile mattina che ha cambiato il destino di un’intera nazione, ho riversato tutto il mio dolore. È su Instagram che ho riversato tutto il mio terrore, la mia rabbia, le mie lacrime. È su Instagram che ho realizzato quello che non potevo sapere, non avendo vissuto per mia fortuna né la prima né la seconda intifada, di cosa è capace e fino a che punto può spingersi il terrorismo palestinese. Ultimo, ma non ultimo, è su Instagram che ho capito come si doveva sentire mio nonno, nel 1943, e tutti gli ebrei come lui e come me prima del 1948 e dopo il 7 ottobre. Perché quel 7 ottobre, esattamente come nel ’43, su Instagram eravamo soli.

Meta ha permesso, scandalosamente, il propagarsi della propaganda terrorista: evidentemente quell’orgia di sangue ebraico non violava “gli standard della community” al punto da bandirla della piattaforma. Ma su Instagram, nonostante tutto, ho deciso di rimanere per testimoniare, per non permettere che l’angolo italiano di questa piazza virtuale rimanesse appannaggio dell’odio, dell’ignoranza, delle facili semplificazioni, dell’antisemitismo, dell’antisionismo: detto in parole povere dell’oscurità. Ho cominciato a fare informazione, storia dopo storia, gratis et amore deo, tra le selvagge sirene della disinformazione voluta e ricercata, in un mare solcato da influencer indemoniati e dribblando “colleghi” che hanno rinunciato a ogni principio della deontologia professionale per ergersi a social-star.

È stato doloroso, faticoso, a tratti grottesco, motivato solo dalla profonda solitudine della mia gente e dal senso di colpa di combattere con armi diverse da un fucile, comunque necessarie, ma da una posizione da privilegiato in tempo guerra: dietro e non davanti la linea del fronte. L’ho fatto per 69 giorni, di notte e di giorno, e senza mai togliere nulla al mio lavoro, quello vero. Ho conosciuto persone meravigliose e meravigliosamente infime, tanta umanità bella e brutta. E infinita banalità e indifferenza. Ho conosciuto anche la diffamazione e le minacce di morte. Il tutto mentre macinavo in Israele chilometri e chilometri, da nord a sud, nell’inferno della distruzione e del dolore delle zone più prossime a Gaza.

Tutto questo fino a quando sono stato messo alla porta da Instagram che ha chiuso il mio account, il mio secondo lavoro che mai avrei pensato e voluto fare è stato cancellato in solo istante, distrutto da un orda di troll pro-Hamas, di partigiani del free Palestine from the River to the Sea in vena di segnalazioni pretestuose scatenatemi addosso da chi per tutto questo tempo è stato seduto su un divano, a migliaia di chilometri da una guerra di cui pretende di sapere tutto ma di cui in realtà non si sa niente. Il resto lo ha fatto un algoritmo impazzito: “Il tuo profilo non rispetta gli standard della community”.

Troppo israeliano. Troppo ebreo. Non conforme. Avrei voluto dirvi “non mi arrendo, ricostruisco. Ricostruiamo. Torno su Instagram con un nuovo profilo anche allo scopo di reclamare il vecchio, assieme a tutti i preziosi materiali al momento perduti che hanno documentato tutta la guerra dall’alba del 7 ottobre: è inevitabile, ed è necessario. Ci vediamo su un nuovo profilo, nella speranza di un finale per una volta diverso”, ma non posso: appena ci ho provato, me lo hanno bloccato come hanno bloccato il vecchio, senza che avessi scritto nemmeno un contenuto. Colpevole di voler aggirare la loro censura… o forse, semplicemente, di esistere.

Dario Sanchez, foto e video reporter, 15 dicembre 2023

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