Fendo l’aria con le mani, le fronde del salice tessono insieme il verde e l’azzurro, l’odore dell’erba mattutina mi inebria e ne mastico il sapore. Chiudo gli occhi camminando per domare il caos. Mi sono guadagnata questo spazio di solitudine per guardare dentro me e riuscire a vedere te. In questa stradina di una finta campagna di una finta città, posso essere finalmente vera. Dove sei? Sforzo tutti i miei sensi perché ho paura di perderti.
***
Dormo scomposta nel lettone della nonna con i capelli arruffati che mamma mi ha tagliato male, il sonno mi vince, ma tu sei dolce: “Andiamo a fare colazione?” Mi guardo accanto, Bianca dorme e la lasciamo dormire, perché quella occasione è solo nostra. Ti do la mano, ti seguo. Ci avvolge un profumo caldo e piacevole, l’acquolina affina le sensazioni, entriamo in quel bar del litorale romano, solo io e te. Il profumo dei cornetti caldi, il rumore dei piattini appoggiati sul bancone e le voci indistinte benedicono quel tempio esclusivo di amore e caffè.
“E Tirchippide trovò Socrate che rifletteva con il sedere all’insù, a guardare il cielo nel suo Pensatoio” scoppio a ridere, immaginando quel sacro filosofo in una posa così comica; tu interpreti i personaggi, cambi la voce, modifichi l’espressione e in quella calma serale mi presenti Aristofane che diventa per me un amico. Le Nuvole sono il mio leitmotiv e di quella commedia conosco ogni passaggio, perché l’ho messa in scena decine di volte nella mia mente, mentre leggevi tu. Dalle Nuvole alla terra, dal mio primo istante a oggi sento il timbro della tua voce, la saggezza delle tue parole mi culla, mi guida, mi turba, mi fa allontanare e infine mi riporta al cuore di tutto. Parole rotonde, medaglie vinte in una dura battaglia.
Sento il tuo passo che sale le scale, limito il mio entusiasmo quotidiano per non essere inopportuna. Il tuo arrivo porta sempre qualche novità. A lungo ti guardo, mentre con panni comodi accosti i listoni… vuoi rendere la mansarda un posto accogliente e tanto, tanto legno c’è da sistemare. Ti faccio compagnia e guardarti, mentre lavori, mi dà solidità, perché costruisci le mie certezze un pezzo alla volta. Ti aiuto un po’ e ritorno alle mie cose; so che la grande casa è attorno e non crollerà.
“Sai che ho recuperato un legume antico? Si chiama cicerchia. Guarda che belle queste mele annurche! Le mangiavo da piccolo. Assaggia questo pane, ho mescolato delle farine integrali, dimmi che ne pensi”.
Ti prendo in giro per queste tue manie, ma lo sai che alla fine assaggerò tutto. Ricerchi l’originale e il buono anche nel cibo e io non so come farti smettere di perseverare in questa ricerca continua, perché vorrei fare una pausa e non pensare a niente, ma con te è impossibile e mi trovo a sorseggiare un decotto di borragine. Tutti eleganti, anche tu. Nella divisa di gala mi rendi fiera, nemmeno la regina di Saba può essere più contenta. A mamma non va e i fratelli sono impegnati. Ma io amo queste cose e tu lo sai. Diciannove anni e un bel vestito, ti sto attorno e sorrido a quel mondo impettito e coraggioso in cui sei cresciuto e che hai abbracciato con piena umanità. Mi fermo davanti alle leccornie, fingo un lignaggio che non ho, gioco a fare la dama e tu sorridi, perché sai che mi solleticano le cose del mondo, le signore eleganti e le mostrine sulla giacca. Da Cincinnato quale sei, poco t’importa delle apparenze e già pregusti il lavoro dei campi nella tua casa vicino al fiume.
Alla scrivania, leggi e scrivi senza sosta, quella ricerca continua e vorresti arrivare per primo alla soluzione e dare ai noi figli una risposta già chiara. Mi chiami, anche stasera tra le carte e i grandi autori hai fatto una scoperta eccezionale: “Ascolta: solo l’uomo che accetta di avvicinarsi alle persone nel loro stesso movimento, non per trattenerle nel proprio, ma per aiutarle a essere maggiormente se stesse, si fa realmente padre”. Annuisco, non ho voglia di darti ragione, ma comprendo esattamente ciò che dici, lo stampo nel mio cuore e vado in cucina.
***
Mi giro nel parco e guardo indietro. Non c’è nessuno. In lontananza qualcuno corre, ma io ho bisogno di andare piano, fare un passo alla volta. Ti parlo, perché è l’unica cosa che posso fare. Guardo il telefono e riascolto quell’ultimo vocale in cui parlavi di me, cercando significati nascosti, indicazioni chiare per la mia esistenza. Sono così grande e così incerta. Tutto il resto mi sembra stupido e vuoto, odio le convenzioni, gli ipocriti e la falsità. Cerco l’essenza in ogni dove. Finalmente è sera e posso lasciare che il sonno mi annebbi la vista e il cuore.
“Ciao, bella di papi”
“Ciao, papà. Papà, dove sei? Lo sai che ho bisogno di ascoltare la tua voce, ho bisogno di litigare con te, ho bisogno di leggere quello che scrivi?”
“Ah… ma allora non hai capito nulla. Mi hai ascoltato?”
“A volte sì e a volte no”.
“Io ci sono, ci sono, ma non puoi vedermi. Puoi percepirmi, ma non puoi vedermi come vorresti”.
“Ed è come pensavi? La felicità totale, la storia dei bicchieri… ti ricordi la storia dei bicchieri? Quando ero bambina ti ho chiesto che cosa fosse il Paradiso e ti dicevo che no, non mi sarebbe piaciuto il Paradiso, non sarei stata felice in Paradiso. A me piaceva la vita vera e tanto. Tu sostenevi che lì sarebbe stata una gioia completa. Ma a me non piace la gioia lucente, edulcorata e diafana. Mi piace la felicità carnale, a volte sguaiata, ma tangibile. Allora tu mi raccontasti della felicità totale con la similitudine dei bicchieri. Ciascuno di noi è come un bicchiere di forma e dimensione diversa dall’altro, grande, piccolo, bombato, stretto, cilidrico e così via; per essere pieno, soddisfatto, ciascuno viene colmato con un quantitativo differente. Così Dio completa ogni uomo, rispondendo a ciascuno in modo esclusivo, differente, secondo le proprie caratteristiche, in modo che ognuno raggiunga l’apice della sua felicità. È così, papà?”
“È più di così. Sono pieno di significato e tutto è finalmente chiaro. La similitudine dei bicchieri è molto umana, ma rende l’idea. Io sono immerso nell’amore di Dio. Non ho mai provato tanto amore, nemmeno quello di una mamma è così grande”.
“Davvero?”
“Sì”
“E potrai darmi un segno per farmi capire che stai bene e che vegli su di me? Lo sai, papà, che ho bisogno di questo. Ho bisogno di parole. Ed è un po’ colpa tua, perché mi hai viziata di parole”.
“Lo so, lo so, fiorellino mio, ma è tutto qui. È tutto attorno a te. Devi solo allenarti a guardarlo, devi solo stare attenta. Metti da parte la tristezza e fai tesoro di tutte le cose vere e belle che ti ho insegnato. Io arriverò a modo mio, secondo la volontà di Dio, quando so che mi
leggerai, quando so che mi vedrai. Ti voglio bene, bella di papi.”
“Anche io ti voglio tanto bene”.
Mi sveglio.
Le mie figlie cercano un abbraccio e io ci sono.
Fiorenza Cirillo, 24 ottobre 2021