Cronaca

Io, insultato dall’ex brigatista - Seconda parte

Più in generale, è il brodo di coltura e di cultura dei terroristi a risultare clamorosamente annacquato: la mitologia postuma ce li ha consegnati come venti-trentenni particolarmente ferrati, coltissimi, lungimiranti, trascurando di spiegarci dove questi ragazzotti si sarebbero formati, posto che scelsero prestissimo le pistole al posto dei libri. Certo, avevano attinti, a spanne, alla pessima letteratura postmarxista ma, quanto a capirla, è un’altra storia e quelli i rudimenti culturali non li avevano. Quando qualche covo veniva scoperto, le forze dell’ordine reperivano, regolarmente, qualche mattone comunista, giusto per decenza, tra pacchi di riviste pornografiche e di fumettazzi. Le loro ricostruzioni da volantino erano farneticanti e per lo più sgrammaticate. Basta leggere i loro libri, dall’epica autoreferenziale, per constatarne la pochezza in ogni senso. Tutto questo, più che gli strazianti messaggi di un Etro qualunque, dovrebbe essere tenuto presente quando si sente dipingere l’epopea brigatista come un irripetibile passaggio sociale denso di cultura, di ideali, di purezza, insomma i migliori, i compagni dell’album di famiglia di cui parlava la Rossana Rossanda, che magari sbagliavano ma ci mettevano faccia, cuore, cervello.

Mentre erano, in due parole, disadattati con desiderio di assoluto, di risposte totali: provengono a volte dai miti resistenziali, più spesso dal cattocomunismo di provincia, come Curcio e la Cagol, e cercano soluzioni definitive ai problemi della vita e della società che definitivi non sono mai; soluzioni che individuano nel marxismo-leninismo e, per quello, fin nella deriva della clandestinità e della lotta armata. In tutti resta al fondo una sorta di rifiuto peterpanesco della realtà, il non voler capire, accettare che le trasformazioni industriali, tecnologiche, modificano dal di dentro la società e di conseguenza rendono antistorico l’approccio cambogiano o sudamericano, svuotano di senso e di prospettiva una rivoluzione, per giunta di lunga durata, nell’Italia bene o male civile, bene o male democratica del 1970.

E lo sanno e lo dicono, ancora a metà dei Settanta, quando i vecchi sono fuori gioco e i successori decidono per la guerra fino in fondo pur sapendo che non ha senso, che non porta da nessuna parte: “Non potevamo tornare indietro”, ma il rifiuto della ragione è più forte, si mescola a calcoli vili, opportunismi, fughe oniriche. In pochi hanno il coraggio di dirlo, all’epoca: tra questi Sergio Ricossa, nell’esemplare I fuochisti della vaporiera, offre una interpretazione precisa: “Continuando la fortuna dei sindacati, dal 1967 in poi la gioventù del mondo occidentale fu percorsa da brividi anarchici (…) Erano le prime generazioni allevate nella permissività totale, oltre che nelle comodità. Frantumatosi il mito di Stalin, si cercavano altri miti, in un mondo che non offriva più ideali (…) I giovanotti, benché annoiati e violenti, non se la sentivano di andare laggiù [in Vietnam, ndA] a farsi ammazzare. Preferivano combattere i loro canuti professori, rei di non avere preparato un mondo migliore (…)”. Il politologo Giovanni Sartori è un altro fra i pochissimi a denunciare lo sfascio: “Il nuovo attivismo politico sta scatenando forze, che né controlla né comprende (…) Gli automatismi complessivi della società liberal-democratica sono fortemente deteriorati”.

Mauro Rostagno è rimasto nella memoria collettiva come una fra le menti sopraffine del gran casino pseudorivoluzionario: sia come sia, ecco come rievoca i momenti di incubazione della sovversione armata: “Io e Renato Curcio vivevamo facendo le supplenze. Si Parlava di tutto, di scuola, di come trasformare l’Università, dell’Internazionalismo, del Che Guevara, di Lang, di Freud. Renato mi spaccava le palle con Camus e il suicidio. Vivevo con Renato Curcio e Paolo Palma in una casa abbandonata. Eravamo poveri da far schifo. Rubavamo un casino di mele che mettevamo nella stanza della frutta, tutta la casa era molto profumata. Un giorno arrivò un matto di nome Tito Tomba. Comunicava con gli spiriti ed era vero. Fece un affresco con me nel mezzo, Renato Curcio da una parte e senza una spalla perché non gli voleva bene, Paolo dall’altra”.

Max Del Papa, 17 dicembre 2021

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