Per Natale si diventa tutti più buoni, ci si scambiano gli auguri e anche a me cominciano ad arrivare: i primi in assoluto son quelli di un terrorista, Raimondo Etro, tornato agli onori della cronaca per alcune intemperanze verbali o meglio twittarole. Che fine, questi rivoluzionari che volevano decapitalizzare il mondo e si ritrovano rinchiusi negli universi di Twitter e di TikTok come Chiara Ferragni, imprenditrice digitale. Oltre che, nel caso specifico, percettori del reddito di cittadinanza, insomma Etro campa pure grazie a un millesimo delle tasse che io verso. Coinvolto nella strage di via Fani, nell’omicidio del giudice Palma (ma personalmente non sparò) e in altre imprese brigatiste, l’ex Br si è fatto i suoi anni di galera, meno del previsto come accadde a tutti i suoi compagni di lotta, perché era già tutto previsto e Pecorelli, il giornalista spione, l’aveva ampiamente anticipato, si è distinto spesso per insulti misogino-caseari contro le donne di destra.
In particolare Giorgia Meloni, cosa che avendo io ricordato su un giornale, mi sono meritato i suoi personalissimi auguri natalizi, particolarmente perché in possesso del green pass. Sembra pazzesco, ma sono tempi in cui la realtà ci supera. Sia chiaro, niente di che, son cose che fanno parte del lavoro e del resto il valente guerrigliero del tempo che fu non mi ha minacciato (almeno al grottesco non c’è arrivato), mi ha giusto coperto di insulti: fuor dal caso personale, del tutto irrilevante, è la matrice di quegli insulti che interessa qui. Perché quando uno, per contestarti, ti dice che “sei come la maggior parte degli italiani, vi piace la fica che puzza di pecorino” (una mania, proprio), “buone feste ricchione”; e poi, insiste, avrei “la moglie che si fa sodomizzare dai negri”, e, peggio ancora, in crescendo fantozziano, sono “una merdaccia vaccinato e possessore della tessera vaccinale, che fai il rivoluzionario a chiacchiere, sei pensoso (sic)”: beh, smaltito lo sconcerto per un uomo che deve essere molto solo, per l’appunto “pensoso” lo diventi davvero.
E sono riflessioni storiche, politiche, ideologiche a investirti: ma come, proprio lui, un ex brigatista, un leninista, contro le destre fasciste, loro che accoppavano per rendere il mondo un posto migliore, più giusto, nel segno della dittatura del proletariato – ancora non si diceva inclusivo, sostenibile e altre formule, ma il senso era quello: basti rileggere i farneticanti volantini brigatisti; un araldo della rivoluzione proletaria che si esprime così? In modo tanto rozzo, fascista, maschilista, sessista (par di sentire il povero Alberto Lionello nei panni del travesta di “Sessomatto”)? Ma, scusate, la sinistra non era in favore dei dannati della terra, per il femminismo, per il terzo mondo eccetera? E tu mi vieni a dare del “ricchione”, del “finocchio” (Etro, che evidentemente ha molto tempo libero, ha proseguito, non smetteva più di scrivermi, un altro po’ lo invitavo a cena), e vede le donne come oggetti di piacere per i “negri”?
Fuori dall’ironia, c’è qualcosa su cui meditare. D’accordo, questo non brillava per particolari attitudini nelle Br; d’accordo, lì dentro le teste calde erano tante e quelle fine rare, giusto un paio di professori, Senzani – che risultava in forte odore di Servizi – e suo cognato Fenzi; d’accordo, il capo militarista Moretti era, secondo le versioni più plausibili, un mero esecutore e portaparola di cervelli più rifiniti – nessuno potè pensare fosse davvero lui a interrogare Moro prigioniero. Chi scrive, Etro non lo sa ma lo apprenderà adesso, visto che a quanto pare ci segue attentamente, pur non capendo niente. Spese la sua adolescenza in via Monte Nevoso, a Milano, proprio di fronte al covo dei suoi compari, da cui andavano e venivano le copie del memoriale Moro. Oggi vive a Porto San Giorgio, proprio il paese natale di Moretti (e del carabinieri legato ai Servizi Arcangelo Montani, che viveva in via Gradoli, vedi caso, gomito a gomito col compaesano capo Br, e dello psichiatra consulente di Cossiga Franco Ferracuti, legato alla Cia…), e, collaborando a un libro dello storico del terrorismo Sergio Flamigni, ebbe occasione di svolgere una inchiesta tra i vecchi insegnanti di Moretti all’istituto Montani di Fermo, e tra i suoi compagni e conoscenti: non uno credeva che Moretti, adolescente chiuso, problematico (e legato a suggestioni di estrema destra) potesse davvero incarnare una parvenza di autorevolezza intellettuale.
Più in generale, è il brodo di coltura e di cultura dei terroristi a risultare clamorosamente annacquato: la mitologia postuma ce li ha consegnati come venti-trentenni particolarmente ferrati, coltissimi, lungimiranti, trascurando di spiegarci dove questi ragazzotti si sarebbero formati, posto che scelsero prestissimo le pistole al posto dei libri. Certo, avevano attinti, a spanne, alla pessima letteratura postmarxista ma, quanto a capirla, è un’altra storia e quelli i rudimenti culturali non li avevano. Quando qualche covo veniva scoperto, le forze dell’ordine reperivano, regolarmente, qualche mattone comunista, giusto per decenza, tra pacchi di riviste pornografiche e di fumettazzi. Le loro ricostruzioni da volantino erano farneticanti e per lo più sgrammaticate. Basta leggere i loro libri, dall’epica autoreferenziale, per constatarne la pochezza in ogni senso. Tutto questo, più che gli strazianti messaggi di un Etro qualunque, dovrebbe essere tenuto presente quando si sente dipingere l’epopea brigatista come un irripetibile passaggio sociale denso di cultura, di ideali, di purezza, insomma i migliori, i compagni dell’album di famiglia di cui parlava la Rossana Rossanda, che magari sbagliavano ma ci mettevano faccia, cuore, cervello.
Mentre erano, in due parole, disadattati con desiderio di assoluto, di risposte totali: provengono a volte dai miti resistenziali, più spesso dal cattocomunismo di provincia, come Curcio e la Cagol, e cercano soluzioni definitive ai problemi della vita e della società che definitivi non sono mai; soluzioni che individuano nel marxismo-leninismo e, per quello, fin nella deriva della clandestinità e della lotta armata. In tutti resta al fondo una sorta di rifiuto peterpanesco della realtà, il non voler capire, accettare che le trasformazioni industriali, tecnologiche, modificano dal di dentro la società e di conseguenza rendono antistorico l’approccio cambogiano o sudamericano, svuotano di senso e di prospettiva una rivoluzione, per giunta di lunga durata, nell’Italia bene o male civile, bene o male democratica del 1970.
E lo sanno e lo dicono, ancora a metà dei Settanta, quando i vecchi sono fuori gioco e i successori decidono per la guerra fino in fondo pur sapendo che non ha senso, che non porta da nessuna parte: “Non potevamo tornare indietro”, ma il rifiuto della ragione è più forte, si mescola a calcoli vili, opportunismi, fughe oniriche. In pochi hanno il coraggio di dirlo, all’epoca: tra questi Sergio Ricossa, nell’esemplare I fuochisti della vaporiera, offre una interpretazione precisa: “Continuando la fortuna dei sindacati, dal 1967 in poi la gioventù del mondo occidentale fu percorsa da brividi anarchici (…) Erano le prime generazioni allevate nella permissività totale, oltre che nelle comodità. Frantumatosi il mito di Stalin, si cercavano altri miti, in un mondo che non offriva più ideali (…) I giovanotti, benché annoiati e violenti, non se la sentivano di andare laggiù [in Vietnam, ndA] a farsi ammazzare. Preferivano combattere i loro canuti professori, rei di non avere preparato un mondo migliore (…)”. Il politologo Giovanni Sartori è un altro fra i pochissimi a denunciare lo sfascio: “Il nuovo attivismo politico sta scatenando forze, che né controlla né comprende (…) Gli automatismi complessivi della società liberal-democratica sono fortemente deteriorati”.
Mauro Rostagno è rimasto nella memoria collettiva come una fra le menti sopraffine del gran casino pseudorivoluzionario: sia come sia, ecco come rievoca i momenti di incubazione della sovversione armata: “Io e Renato Curcio vivevamo facendo le supplenze. Si Parlava di tutto, di scuola, di come trasformare l’Università, dell’Internazionalismo, del Che Guevara, di Lang, di Freud. Renato mi spaccava le palle con Camus e il suicidio. Vivevo con Renato Curcio e Paolo Palma in una casa abbandonata. Eravamo poveri da far schifo. Rubavamo un casino di mele che mettevamo nella stanza della frutta, tutta la casa era molto profumata. Un giorno arrivò un matto di nome Tito Tomba. Comunicava con gli spiriti ed era vero. Fece un affresco con me nel mezzo, Renato Curcio da una parte e senza una spalla perché non gli voleva bene, Paolo dall’altra”.
Max Del Papa, 17 dicembre 2021