Se la vittima non è nera e non aiuta la narrazione molto “liberal” aggrappata alle battaglie di Black Lives Matter, nessuno ne parla. Accade a New York, o meglio sulle prime pagine del New York Times, dove l’omicidio di Davide Giri, barbaramente ammazzato nei dintorni del campus della Columbia University, è stato relegato a pagina 16 della cronaca cittadina.
Eppure dell’assassino, Vincent Pinkney, si sa quasi tutto. Ha 25 anni, è membro di una gang di che fa della violenza un inno (Everybody Killas), era stato arrestato per crimini violenti, condannato, rilasciato prima di aver scontato la pena e sospettato di aver nuovamente commesso un’aggressione. Si sa anche che dopo aver tolto la vita a Giri se ne è andato in giro per Manhattan e ha cercato di finire anche un turista italiano, Roberto Malaspina, e una coppia a Central Park dove poi è stato arrestato. Pare fosse anche razzista, nel senso di odio verso i bianchi. Di sicuro è una di quelle storie che meriterebbero un approfondimento, soprattutto quando accade a New York, in una delle Università più importanti del mondo, sotto gli occhi del pianeta, con un innocente straniero (in questo caso italiano) coinvolto nell’omicidio.
Come fa notare Rampini oggi sul Corsera, però, sulla stampa liberal questo efferato crimine è passato inosservato. “L’interesse del quotidiano, e il vigore investigativo messo in campo, sarebbero stati diversi se le parti fossero state rovesciate – scrive lo storico corrispondente – Se cioè la vittima fosse stata afroamericana e l’omicida un bianco; a maggior ragione se quel bianco fosse stato un membro di qualche organizzazione che predica e pratica la violenza, per esempio una milizia di destra. La tragedia sarebbe finita in prima pagina, un team di reporter sarebbe stato mobilitato per indagare l’ambiente dell’omicida, la sua storia e le sue motivazioni”.
Perché allora è calato il silenzio su Pinkney? Perché “è un afroamericano”. Non un poliziotto bianco o un cattivone sovranista. Per trovare le notizie sul killer di Giri, scrive Rampini, “bisogna andare sui siti di qualche tv locale, oppure di un tabloid populista, il New York Post. Il New York Times ha scelto una reticenza coerente con la linea editoriale degli ultimi anni. I canoni del giornalismo americano sono stati stravolti, in particolare durante l’era di Donald Trump quando nelle redazioni dei media progressisti è diventato un vanto praticare il ‘giornalismo resistenziale'”. Cosa significa? Ecco: “La ricerca di equilibrio o imparzialità è stata considerata una debolezza: il fine giustifica i mezzi”. Se c’è da combattere Trump, i repubblicani, la destra, i sovranisti, allora tutto è permesso. Anche mandare al diavolo la coerenza.
“Con l’omicidio dell’afroamericano George Floyd da parte di un agente bianco nel maggio 2020 a Minneapolis, e il rilancio del movimento antirazzista Black Lives Matter, i principali quotidiani hanno abbracciato lo slogan ‘tagliamo fondi alla polizia’ – insiste Rampini – Saccheggi e violenze avvenuti con il pretesto dell’antirazzismo sono stati minimizzati. Una purga all’interno della redazione ha allontanato diversi reporter che non erano allineati con il radicalismo di Black Lives Matter”.