Ius soli, cosa ci insegna Jacobs

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Marcell Jacobs, tornato da Tokio, ha dimostrato con poche, semplici, parole di essere un campione anche nella vita quotidiana. Di esserlo sia nella capacità di analisi sia nella tempra morale. In questi giorni abbiamo assistito sui mezzi di comunicazione di massa a un trasbordante e ipocrita fiume di inutile retorica sui significati reconditi che dovrebbero attribuirsi, secondo certi nostri soloni, agli italici successi olimpici. Nella fattispecie, alla presa d’atto dell’avvenuta maturazione della nostra società in senso multiculturale e “inclusivo” (un’altra delle parole passe-partout in certi ambienti à la page) di contro a una politica in ritardo e non in grado di adeguarsi. Ad esempio, legiferando sullo ius soli e contrastando ogni tentativo di contenimento dell’immigrazione clandestina e illegale. Ove è fin troppo palese che sono le destre, “sovraniste” e xenofobe, e Salvini, il nuovo Caimano, sul banco degli imputati.

Che si tratti di retorica e quindi di un uso strumentale dello sport è evidente per due ordini di motivi: 1. che la società italiana sia quella che è riflessa dallo sport, lo sa chiunque viva una vita normale e non se ne fa problema (in quanto a capacità di integrare noi italiani abbiamo un’esperienza a dir poco bimillenaria); 2. che siano la clandestinità e le condizioni dell’ospitalità, non questa stessa in quanto tale, il centro del discorso “anti-immigrazionista”, e non certo un presunto “razzismo”, è altrettanto evidente ma è quello che non si vuole ammettere per non far crollare il proprio discorso ideologico. In verità, il vero razzismo è proprio di chi in ogni momento, per i suoi fini, calca su una diversità fra italiani che nessuno di noi pensa o vive come tale. Pura strumentalizzazione.

E un’incapacità di vivere lo sport (così come l’arte e ogni altra manifestazione della creatività umana) nella sia immediatezza e semplicità, nel suo valore intrinseco. Senza addentellati politici. Ci vuole allora veramente intelligenza a individuare il punto, e dirlo in modo netto e non prolisso, come ha fatto Jacobs nell’intervista al Foglio di ieri. Fra l’altro rilasciata, con un’indubbia scelta dei tempi, come si conviene a un velocista, dopo che tutti si erano prodigati in elogi che non possono rimangiarsi. Ma ci vuole anche tempra e coraggio morale, non solo nell’andare oltre il conformismo dei tempi ma anche di farlo mettendosi contro il presidente del proprio Comitato olimpico che invece non aveva esitato un attimo a buttarla in politica, a scendere a gamba tesa nel dibattito in corso. Un campione può permetterselo.

Ed è anche la dimostrazione che si può fare un buon uso del proprio successo, che il potere non è un male in sé ma può anzi essere uno strumento efficace e una condizione essenziale per esprimere la propria libertà. Non ci sentiamo di dare, attraverso Jacobs, lezioni ai calciatori della nazionale che, un mese fa, hanno prima titubato e poi accettato di inchinarsi per un fine estrinseco e discutibile. Che fosse un atto di coazione, non spontaneo, lo hanno capito tutti. Che però essi vi abbiano adempiuto, probabilmente per non crearsi problemi, non è né giustificabile ma nemmeno comprensibile.

Si può comprendere il povero cristo che deve scendere ogni giorno a compromessi con la propria coscienza per campare e far sì che i potenti non gli nuocciano più di tanto, ma a chi è popolare ed indispensabile, quale può esserlo un calciatore alla nazionale, bisognerebbe far presente che, oltre a calciarle certe sfere bisogna anche dimostrare di averle. A ben vedere, la virtù sportiva è anche questo.

Corrado Ocone, 12 agosto 2021

 

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