Cultura, tv e spettacoli

Johnny Depp vs Amber Heard: una sentenza che condanna il me too

Dopo tre giorni di camera di consiglio è arrivato il verdetto: l’ex moglie dovrà risarcire l’attore con 15 milioni

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Non sembrano neanche reali. Lui, lei, la noia atroce di chi ha più di ogni sogno e non sa come alzare ancora l’asticella della depravazione, un turbine di insulti, violenze, menzogne, ripicche, roba da disperati da ringhiera, non da superstelle del cinema, con le scorte nerborute, le auto e i jet privati, castelli di rabbia e di noia, noia, noia, alla fine è solo quello, sempre quello e neanche le droghe la spengono più.

Il lato fetido di Hollywood, che è sempre lo stesso, che non cambia mai, dai divi del muto fino a Johnny e Amber, e che finisce sempre davanti a un giudice di marmo, con una giuria di comuni mortali che non capiscono ma giudicano e alla fine la sentenza. Salomonica, in questo caso: Johnny Depp e Amber Heard sono entrambi due bugiardi, due calunniatori, due meschini, ma lei di più: condannati per le stesse bassezze, solo lui a dare due milioni di dollari, lei quindici e adesso, tanto per cambiare, frigna: delira di persecuzione ai danni delle donne, tutte le donne, di sproporzionato potere di lui, che è maschio, bianco, tossico. Il solito armamentario del dannatissimo metoo che ne esce clamorosamente svalutato e se c’è una cosa notevole in questo squallore platinato, è proprio questa: c’è un giudice a Hollywood, e comincia a fottersene delle pose, le retoriche, le vane parole, i carrierismi vaginali o meglio li mette sullo stesso piano di quelli maschi, bianchi, tossici eccetera.

Amber Heard perseguitata? Violata nel suo diritto a parlare? Se non ha fatto altro. Amber paladina delle donne qualunque che vengono massacrate, ammazzate da compagni balordi e criminali? Questo è troppo anche per il giudice più comprensivo. Le “montagne di prove” rivendicate da queste bellissima nullità, che in carriera s’è agitata molto ma concludendo poco, perfino attaccata dalle femministe, il che è divertente, per un ruolo nella serie The Playboy Club, riscuotendo invariabilmente critiche negative dopo ogni cimento, quelle montagne di prove le sono franate addosso. E già prima era destinata a passare alla storia come compagna svitata di uno svitato in una storia di ordinaria follia: le dita mozzate di lui, il sangue dappertutto, la bottiglia usata come attrezzo di piacere, si fa per dire, le cagate sul letto di lei, le versioni organizzate da dare in pasto ai media, bugie, bugie, una foresta di bugie, sempre bugie, troppe bugie.

Questo processo, che non sembra neanche reale, che diventa social, con i giurati tutti coglioni da tastiera, è un match tra ballisti e alla fine vince il meno falso, almeno secondo un giudice. Affari loro, si dirà, abissi loro, dorate miserie loro, ma se la Amber ne è uscita travolta sul lato giudiziario non meno che mediatico, non si può liquidare tutto a una persecuzione “contro tutte le donne”. Le sue lacrime di plastica non hanno convinto anzitutto le donne, che non hanno particolarmente solidarizzato con il maschio Depp, semplicemente non se la sono bevuta. Come a dire: lui almeno lo conosciamo, ma tu che vuoi fare ancora la santarellina? Questa star per mancanza di talento non era credibile come non lo è una che annuncia al mondo di aver devoluto i 7 milioni del divorzio con Depp in beneficenza, e poi si scopre che l’ente beneficiario era se stessa; come una sospettata di violenza domestica dalla compagna dell’epoca, la fotografa Tasya Van Ree, accusa puntualmente quanto grottescamente rigirata in persecuzione misogina “perché l’ufficiale che ha condotto l’indagine era una lesbica aperta”.

Quanto a Johnny, non è che ne esca poi tanto meglio: con l’aura del perseguitato o meglio dell’incastrato, d’accordo, ma anche lui dovrà faticare, cavalcando l’onda di questa vittoria sporcata in giudizio, per ricostruire una carriera gravata dallo stigma di debosciato, squilibrato, fuori di testa. Non in quanto tale, ma solo perché emerso in tutto il suo squallore. Uno che un suo talento ce l’ha, ma che voleva troppo somigliare ai suoi idoli del rock, che ha fatto amicizia con quello meno comparabile, Keith Richards, il quale lo chiama “piccola testa di cazzo” e lo piglia ad affettuosi sganassoni – tanto per dire la vertiginosa distanza fra l’originale e gli emuli. Amber e Johnny escono per quelli che sono, due alienati, due psicopatici che invece di un manicomio frequentano ville da favola; sono bruciati, lei molto più di lui, proprio perché non hanno più maschere: nel lurido mondo del cinema funziona così, nessuno stupore, nessuna novità.

Ma vince, se di vittoria si può parlare, chi fa coincidere il mito con la realtà; non chi, sotto la perfezione fittizia, è peggio di qualunque incubo. Così ha deciso un giudice a Hollywood, l’udienza è tolta e il resto è noia. Ma se qualcosa ci insegna, questa vicenda che non sembra neanche reale, è che in America l’eccesso di ipocrisia, di vittimismo, di cialtronaggine, di populismo sessuale ha cominciato a rompere i coglioni e si registrano le prime inversioni di tendenza. E il maschio tossico bianco c’entra poco e niente. E continuare a frignare scomodando le commesse e le sciampiste che leggono di questa gente sui rotocalchi e sui siti di gossip, non salverà Amber Head, che ormai pare inviperita perfino coi suoi legali: che fa, va a cagargli sul letto anche loro, uno dopo l’altro?

Max Del Papa, 2 giugno 2022