Quando il 15 gennaio, durante una seduta dell’Europarlamento, Jean Claude Juncker fa un’inattesa autocritica dicendo che la politica di “austerità dell’Ue è stata forse un po’ avventata” e che “con la Grecia non siamo stati abbastanza solidali”, molti si stupiscono e pochi cercano una spiegazione. Qualcuno pensa a una botta di folklore (alcoolico?), altri badano a sfruttare in chiave di propaganda quello che pare un autogol. Ma il lussemburghese Juncker è un politico molto flessibile: nella sua trentennale carriera di evergreen è stato sia architetto della vantaggiosa ascesa granducale a quasi-paradiso fiscale sia guardiano attento del rigore di marca tedesca e se fa una giravolta un motivo c’è sempre.
L’autocritica cade in un periodo di grandi manovre in vista delle elezioni europee di maggio. I popolari, da sempre gruppo di maggioranza relativa nel Parlamento UE, hanno chiaro che la coalizione con i socialisti, partner fidato ma ora in forte declino, non ha più i numeri e manca comunque di fascino politico. Le alternative sembrano due: o una maggioranza omnibus che ai socialisti aggiunga liberali e verdi o un accordo con i nazionalisti (populisti) in ascesa.
La prima sembra un raduno di perdenti (con l’eccezione dei verdi) e ha tutti i problemi delle coalizioni molto variegate. La seconda sconta grande distanza politica, molte polemiche tuttora in corso e anche una certa divaricazione tra gli stessi popolari: più propensi i cattolici dell’area tedesca (bavaresi, austriaci e in aggiunta ungheresi) e i mediterranei, diffidenti o contrari i protestanti del Nord.
Juncker lancia così un ballon d’essai, forse un ponte (politico?) verso i nazionalisti. La mossa segue la scelta del bavarese Weber (Csu) come candidato dei popolari alla presidenza della Commissione e ne enfatizza il significato. In sostanza sembra che i popolari stiano preparando il ritorno di un classico democristiano: la politica dei due forni.
Il fatto interessante è che da Nord è arrivata a stretto giro la risposta. In Svezia da mesi non si riusciva a costituire il governo: le due principali coalizioni (da un lato socialdemocratici, verdi e comunisti; dall’altro quattro partiti di centrodestra) sono alla pari e distano parecchio dalla maggioranza dei seggi a causa di un partito anti-immigrazione (i democratici svedesi) che ha fatto un notevole balzo in avanti (oltre il 17%). All’ultimo minuto, prima di finire a nuove elezioni, due partiti di centrodestra (entrambi aderenti all’Alde, il gruppo europeo dei liberali) hanno rotto l’alleanza di centro-destra e sono passati al sostegno del blocco di sinistra votando due giorni fa il premier socialdemocratico uscito battuto dalle elezioni.
La Svezia è con l’Olanda il principale Paese della Lega anseatica, il blocco di Stati del Nord (per lo più scandinavi e baltici), quasi tutti protestanti (tranne l’Irlanda), che difendono il rigore economico, hanno poco interesse per l’immigrazione (li protegge la geografia) e temono i debiti del Sud. Guidati dai liberali, in testa il premier olandese Rutte, non vogliono mutare la rotta dell’Unione: è ormai aperta la battaglia per il futuro politico europeo. A qualcuno viene mente la guerra dei trent’anni (1618-1648) quando svedesi e principi tedeschi del Nord si scontrarono con gli Asburgo per la supremazia nell’Europa Centrale. I francesi (cattolici) si schierarono allora con i protestanti. Cosa farà ora Macron (parlandone da vivo)?
Antonio Pilati, 20 gennaio 2019