Kamala, il tracollo dei Vip. Il popolo vi ama e vi schifa

Per l’ennesima volta la sinistra sbaglia i conti: comprare il biglietto di un concerto non è come votare

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Sostegno star politica 2

Ne accenniamo già nell’altro pezzo, ma vale la pena di tornarci: il colossale endorsement della vipperia americana in favore di Kamala Harris non ha spostato un voto o se lo ha fatto lo ha fatto in senso contrario, dirottandoli i voti su Trump. Non precisamente una novità, lo stesso Federico Rampini (che ha votato Harris, senza successo), lo aveva messo in luce a suo tempo. Resta da chiedersi a chi davvero giova una simile, plateale esibizione di faziosità da parte dello show business: a chi la riceve o a chi la esprime? E per quali autentiche ragioni? Comunque non funziona o funziona alla rovescia e i motivi sembrano tutto sommato intuibili: la presunzione di questi privilegiati, anzitutto.

Ragazzine o matrone che di economia, di geopolitica sanno niente, spesso passate dai lavori umili, bariste, operaie, baby sitter, al Paese dorato con tutta la fretta di dimenticare le origini, le antiche fatiche. Però pretendono di insegnare, indicano un voto di pancia a quanti accusano, neppure velatamente, di votare altrimenti con la pancia. Le profonde ragioni delle varie Taylor, Jennifer, Gaga non sono granché, sono una giaculatoria di luoghi comuni: “Voglio un mondo di pace”, “voglio un mondo più giusto e più pulito”. E lo dicono bordo dei loro yacht ecologisti da seicentomila litri di gasolio, dei loro aerei personali con cui mandano a prendere i fidanzati dall’altra parte del mondo. Oppure dicono: l’altro fa schifo, è un magnaccia, è uno stupratore. E a dirlo è gente come DiCaprio, che partecipava ai festini di Puff Daddy, o la Lopez che ci si era pure fidanzata, ma forse era distratta, impegnata a correggere il pianeta.

La gente, la plebe se preferite, è un po’ cambiata: sempre sensibile al fascino del divismo, ma in modo meno acritico, forse con maggiore acrimonia. La gente ammira, invidia, ma non è più disposta a sentirsi fare la morale da personaggi dalle infinite contraddizioni, che navigano in un mare di ipocrisia. Il popolino oppresso dalla religione woke è saturo di sentirsi insegnare come vivere, consumare, educare i figli, alimentarsi, amarsi, votare: possibile che questi non lo abbiano ancora capito? Possibile sì, una come Kamala Harris vive in funzione, ed è funzione essa stessa, dell’agenda woke che prevede l’educazione del popolo tra comunismo e consumismo, un po’ Lenin e un po’ il tutto subito degli influencer. Stanno nella bolla, non conoscono altri mondi, si autoalimentano di certezze drogate e qui sta la dèbacle di una come Harris e dei suoi testimonial “democratici”: siamo alieni ma vi diciamo, peggio, vi comandiamo come stare al mondo. E se non lo fai, usano la tecnologia del controllo per ricattarti, per metterti fuori dal mondo.

Ma perché poi un cantante folk, che si fa chiamare il Boss, dovrebbe tracciare la via? Uno che se non hai trecento euro al suo concerto non ci vai, ma canta con gratuita passione per qualsiasi candidato democratico gli passi a tiro, fosse pure Landrù? Questo Springsteen è un po’ un Benigni a stelle e strisce, coi suoi abbraccioni camionistici, le sue tirate populiste, e la gente dovrebbe starlo a sentire, dovrebbe fare come dice lui?

Politica e spettacolo, politica spettacolo: ma la presunzione dei ricchi, dei padreterni non paga più e, del resto, gli stessi candidati bastano e avanzano a fare lo show. Questa fame di divertimento, di luccichio con cui coprire tutto, a cui tutto ridurre; questo dover trasformare anche una competizione elettorale in un evento televisivo come il Superbowl: ecco un effetto non tanto edificante, non piacevole del condizionamento americano. Popstar e divi del cinema, convertiti in coscienze civili e ambientali, credono ancora di fare la differenza, ma è una illusione che finisce per indisporre, per scatenare l’eterogenesi dei fini.

Anche Trump, naturalmente, affonda in questa subcultura, anche lui ha i suoi testimonial, molti meno per la verità, ma ha soprattutto capito una cosa e l’ha capita già alla prima elezione, un’epoca fa: lui può farne a meno, lui, nel bene e nel male, è la star. Dite che può contare sul sostegno di uno che è tutto, industriale, persuasore, divo, come Elon Musk? Certo, ma Musk non è un semplice mercante di miraggi, è uno che crea, realizza, sta nella finanza ma ancora nella produzione, uno che “fa le cose” e non viene percepito per un semplice narciso, un velleitario dell’industria delle seduzioni. Uno che sembra avere, a prescindere dalle sue opinioni, un titolo diverso per esprimersi su questioni di geostrategia, di tecnologia, con relative conseguenze.

Perché ci sta dentro, le condiziona col suo immenso arsenale tecnologico, non sta a guardare, non pretende di insegnare al mondo come vivere solo perché è diventato famoso come star del palco o di Tik Tok. In Pennsylvania, a Pittsburgh a fare il coro per la Dem, Katy Perry, Cedric the Entertainer e Andra Day; a Philadelphia c’erano Lady Gaga, la potentissima Oprah Winfrey, Ricky Martin, DJ Cassidy e il rapper Fat Joe. Harris; a Las Vegas Christina Aguilera e il duo electro-dance Sofi Tukker; a Raleigh, in North Carolina, gli Sugarland, duo di musica country composto da Jennifer Nettles e Kristian Bush. Harris ha apparecchiato gli States con gli amici canterini nell’eterna fiera della vanità, il “non posso mancare proprio io se tutti gli altri ci sono”. Un “We are the world” di rara protervia: la gente ascolta poi dice: goodbye, stronzi, e vota come le pare.

Max Del Papa, 6 novembre 2024

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